Pubblicato il Agosto 23rd, 2016 | by Paolo Carnelli
0Yes – 90125 (1983)
Tracklist
Lato A
1. Owner of a Lonely Heart
2. Hold On
3. It Can Happen
4. Changes
Lato B
1. Cinema
2. Leave It
3. Our Song
4. City of Love
5. Hearts
Personell
Jon Anderson (vocals) ● Chris Squire (bass guitars, vocals) ● Trevor Rabin (guitars, keyboards, vocals) ● Alan White (drums, percussion, Fairlight CMI, chorus) ● Tony Kaye (Hammond organ, piano, chorus) ● Dipak Khazanchi (sitar and tambura on It Can Happen) ● Graham Preskett (violin on Leave It) ● Trevor Horn (backing vocals)
Chris mi chiamò mentre ero a Londra con Vangelis e mi chiese se volevo ascoltare alcuni demo che aveva appena realizzato. Gli risposi di sì, ed effettivamente si trattava di materiale interessante. Allora gli domandai come si chiamasse la band, e lui mi disse “Cinema”. Ma con la mia voce sopra, era ovvio che tutti avrebbero pensato agli Yes. Bisognava prendere una decisione: era davvero giunto il momento che gli Yes tornassero in pista? — JON ANDERSON
Quando l’ho abbracciato, qualche anno dopo la sua pubblicazione, 90125 ha rappresentato prima di tutto un lasciapassare nell’universo musicale degli adolescenti dell’epoca. Difficile inserirsi nei discorsi dei compagni di classe parlando di Peter Hammill o dei Van der Graaf Generator (chi?), molto più semplice farlo utilizzando un grimaldello come Owner of a Lonely Heart. Almeno il “gruppo di Owner of a Lonely Heart” era un gruppo conosciuto e di successo. Che poi quel gruppo, incidentalmente, si chiamasse Yes, a molti importava davvero poco.
Certo, con i vecchi Yes che avrei poi imparato a conoscere e amare, quella band aveva almeno apparentemente ben poco a che fare. Gli Yes degli anni ’70 erano stati principalmente una creatura di Jon Anderson e Steve Howe: in questa nuova incarnazione, Howe non era presente e Anderson era saltato a bordo all’ultimo momento, quando l’album era già sul punto di essere pubblicato. Troppo tardi per poter dare il suo apporto in fase di scrittura, troppo tardi per poter avere voce in capitolo su tante cose. Anche se poi, ascoltandolo bene, 90125 ha il pregio di inglobare qua e là tanti riferimenti, tanti piccoli indizi che ci riconducono dritti alla tradizione dei vecchi Yes. E’ un percorso subliminale. Come in certe pubblicità, dove ogni tanto ci sono dei brevissimi fotogrammi, quasi invisibili. che servono a stimolare il cervello a livello inconscio. Un buon esempio è rappresentato dalla conclusiva Hearts, che in quanto a struttura e sonorità in molti punti è riconducibile a And You And I, o dall’atipica Leave It, che esaspera gli intrecci e le polifonie vocali che avevano reso celebre la band, massimizzandone l’impatto sonoro. Ma è innegabile che quello che colpisce immediatamente, ora come allora, è l’aspetto strettamente tecnico. Trevor Horn aveva dato agli Yes un nuovo suono. Li aveva indotti ad accettare l’essenzialità degli anni ’80, così distante dall’opulenza e dalla libertà sonora degli anni ’70, e non solo per quanto riguardava la durata dei brani: basti pensare che la linea portante di basso di Owner è costituita da sole sette note che si ripetono in maniera assolutamente identica per il 90% del pezzo. Anche solo per il fatto di essere riuscito a convincere uno come Chris Squire a registrare una parte del genere, Trevor Horn meriterebbe un monumento. Nonostante ciò, Horn non chiese mai ai musicisti di rinunciare al loro carattere: 90125 è un disco “suonato”, ma al tempo stesso studiato e pensato in ogni dettaglio. Non ci sono tempi morti, i muscoli si flettono solo quando è necessario (come nell’heavy blues di Hold On o nella pirotecnica Cinema) mentre in barba al Synclavier e alle altre diavolerie elettroniche disponibili in studio, sono ancora gli strumenti acustici come il sitar (It Can Happen) e il violino (Leave It) ad essere chiamati in causa quando c’è da aggiungere un pizzico di magia.
Come spesso mi è capitato, arrivai a 90125 e agli Yes attraverso i concerti, in questo caso grazie alla videocassetta di 9012 Live. La guardavo per ore: mi piacevano i costumi, i movimenti sul palco, l’energia. Mettevo in loop la parte finale di Starship Trooper (Wurm) e a un certo punto iniziai anche a suonarla con un vecchio Eko Tiger facendo finta di essere Tony Kaye. Anche quello era un pregio di quella formazione degli Yes: dare a un ragazzo di quattordici anni dei modelli sostenibili da provare ad emulare… altro che Wakeman e Moraz!