Pubblicato il Novembre 16th, 2016 | by Massimo Forni
0THE BEATLES – Abbey Road (1969)
Tracklist
Lato A
1. Come Together
2. Something
3. Maxwell’s Silver Hammer
4. Oh! Darling
5. Octopus’s Garden
6. I Want You (She’s So Heavy)
Lato B
1. Here Comes the Sun
2. Because
3. You Never Give Me Your Money
4. Sun King
5. Mean Mr. Mustard
6. Polythene Pam
7. She Came In Through the Bathroom Window
8. Golden Slumbers
9. Carry That Weight
10. The End
11. Her Majesty
Personell
John Lennon – lead, harmony and background vocals, lead and rhythm guitars, acoustic and electric pianos, Hammond organ and Moog synthesizer, percussion ● Paul McCartney – lead, harmony and background vocals, lead, rhythm and bass guitars, acoustic and electric pianos, Hammond organ and Moog synthesizer, wind chimes, handclaps and percussion ● George Harrison – harmony and background vocals, lead, rhythm and bass guitars, Hammond organ, harmonium and Moog synthesizer, handclaps and percussion ● Ringo Starr – drums and percussion, background vocals and lead vocals ● George Martin – piano, harpsichord, organ and harmonium, percussion ● Billy Preston – Hammond organ on Something and I Want You (She’s So Heavy)
L’8 agosto del 2009 centinaia di persone erano riunite davanti agli studi musicali di Abbey Road a Londra per celebrare un anniversario: incredibile a dirsi, quello di una foto, scattata quarant’anni prima…
L’8 agosto del 1969 i Beatles, quasi come in esecuzione di uno strano rito, si fecero riprendere dal fotografo scozzese Iain MacMillan mentre attraversavano, l’uno dopo l’altro, le strisce pedonali: la foto andò a finire sulla copertina dell’album Abbey Road e subito dopo riprese fiato un’incredibile leggenda metropolitana, secondo la quale il bassista Paul McCartney sarebbe morto tre anni prima in un incidente stradale e poi sostituito da un sosia. Eppure, incredibile ma vero, era stato sufficiente che Paul fosse sfilato a piedi nudi davanti alla macchina fotografica, per indurre molti fans dell’epoca a parlare di una prova certa della sua morte; allo stesso modo, l’abbigliamento degli altri tre venne interpretato arbitrariamente per attribuire il ruolo di prete che celebra il funerale a John Lennon, di impresario delle pompe funebri a Ringo Starr e di becchino a George Harrison. Il resto lo fa l’automobile immortalata nella foto: la targa LMW 28 IF sarebbe decifrabile nel seguente modo: “Linda McCartney diventata vedova (widowed) se (if) Paul avesse 28 anni”, cioè, se fosse ancora vivo. Queste incredibili supposizioni sono andate avanti per anni, fino a quando (c’è ancora chi continua a tentare di avvalorare l’assurda ipotesi: basti leggere una lettera pubblicata, in relazione ad analogo articolo della settimana precedente, da un lettore sul settimanale “Gente” n. 34 del 23/8/09, con la quale si evidenzia che la figura di Paul nella foto è l’unica che non proietta la propria ombra sulla strada, come si conviene ad un vero fantasma… ) nel 1993 Paul Mc Cartney decise di farsi fotografare nella stessa strada per un disco dal vivo, intitolato significativamente Paul Is Live. Nonostante ciò, la strada, divenuta inopinatamente famosa, continua a essere meta ininterrotta di “pellegrinaggi”, contribuendo a rivestire i “baronetti” di un alone quasi mistico, che fa venire in mente una frase emblematica: “Quando non si crede più a niente, si è disposti a credere a tutto!”. Non bisogna meravigliarsene più di tanto: gli anni ’60, ferrei demolitori di tutto quello che c’era prima, hanno particolarmente bisogno di miti e di icone, di fantasmi e di misteri. La musica progressiva degli anni ’70, anche se ha consacrato tanti grandi protagonisti, vive invece in una dimensione maggiormente collettiva e il talento di ognuno è normalmente al servizio di tutto il gruppo. C’è da dire, poi, che per la prima volta sulla copertina del vinile non appare alcuna scritta: a differenza dell’ Album bianco, che quanto meno indicava il nome della band, questo disco fa desumere gli autori esclusivamente dalla celebre foto. Addirittura, inizialmente l’album avrebbe dovuto intitolarsi Everest e si era ipotizzato di andare sull’Himalaya a scattare delle foto per la copertina: si è poi cambiato idea soprattutto per la ristrettezza dei tempi a disposizione.
Addentriamoci, a questo punto, nell’aspetto musicale di quest’album, che è stato l’ultimo lavoro inciso dai Beatles: infatti, il 33 giri Let it Be (contenente canzoni memorabili, ma alquanto frammentario nell’insieme) è stato pubblicato alcuni mesi dopo (all’inizio del 1970), ma è composto da brani registrati antecedentemente alle sessioni di Abbey Road. Diciamo, in primo luogo, che se abbiamo Abbey Road lo dobbiamo quasi esclusivamente a Paul McCartney, l’unico, a questo punto della storia del complesso, disposto ancora a credere e a scommettere sui Beatles. Gli equilibri interni sono saltati completamente: Paul da un po’ di tempo è di fatto l’autentica guida del gruppo, il vero leader, ma senza leadership, e cioè non riconosciuto dai colleghi. I baronetti sono vicinissimi allo scioglimento, anzi, alcuni restano quasi stupiti quando viene annunciata l’uscita del nuovo lavoro, al termine del quale però la decisione sarà irrevocabile. Una decisione che sarà ufficializzata con ritardo per timore di una sensibile contrazione delle vendite dei dischi a motivo della conseguente e inevitabile delusione generale: l’esatto contrario di quanto sarebbe avvenuto in seguito per altre band e artisti (e avviene ancora oggi, più che mai!), per i quali, invece, lo scioglimento o la morte hanno fatto registrare un’impennata nella vendita delle relative opere prodotte in carriera.
Il celebre bassista lancia il progetto e chiede la massima concentrazione: se la storia dei Beatles deve terminare, il finale deve essere degno di quel nome. E poi, c’è anche un contratto con la EMI da rispettare… La sala d’incisione si apre, quindi, un’altra volta per i nostri (è il primo luglio del ’69) e questa volta c’è di nuovo anche George Martin (che ha posto come condizione alla sua partecipazione il non verificarsi di ulteriori litigi tra i quattro musicisti). Per la verità, solo poche volte i Beatles si incontrano durante le sessioni di registrazione e il clima non è certamente favorevole: basti pensare che una delle proposte di John Lennon è di collocare le proprie canzoni sul lato A del vinile e quelle di McCartney sul lato B. Nonostante ciò, il risultato finale appare più coeso rispetto a quello degli album immediatamente precedenti: scatta di nuovo la “molla giusta” e cioè quella della competizione tra Lennon e McCartney, il desiderio di dimostrare all’altro di essere il migliore. In questo reciproco (positivo) condizionamento (e bilanciamento delle relative tendenze artistiche) risiede la forza compositiva dei Beatles, anche quando scrivono le canzoni da soli, come accade ormai da anni, quanto meno dall’uscita del Sgt. Pepper’s. A ciò si deve aggiungere la fortunata circostanza che George Harrison è proprio in questo momento al suo apice creativo e, pertanto, il suo contributo sarà molto importante, qualitativamente di maggior spessore rispetto ai dischi precedenti: Something e Here Comes The Sun risulteranno tra i brani migliori dell’intero lavoro. Something fu la prima canzone di George ad occupare il lato A di un 45 giri dei Fab Four, sconfiggendo per la prima (e unica) volta il predominio del marchio Lennon-McCartney e, dopo Yesterday, è risultata la canzone dei Beatles della quale sono state incise più cover (compresa quella, molto famosa, di Ray Charles, che George aveva immaginato impegnato al relativo canto quando la compose nel 1968, senza aver avuto il tempo di includerla nel White Album). L’acustica Here Comes The Sun si mette in evidenza non solo per la leggiadria dell’arpeggio chitarristico, ma anche per l’ottimismo del testo, che contrasta con le parole delle altre canzoni, che parlano principalmente di questioni legali, fregature, debiti non pagati e così via.
Tra i migliori pezzi di John troviamo Come Together, caratterizzato da una originale linea di basso, e Because. Suscita curiosità il fatto che Come Together fosse stata scritta inizialmente come inno a favore di Timothy Leary, candidato alla carica di governatore della California, la cui corsa alle elezioni fu interrotta bruscamente dal relativo arresto per detenzione di sostanze stupefacenti. La canzone venne poi modificata e pubblicata nel modo che tutti conosciamo e Leary, quando la ascoltò per la prima volta in carcere la prese un po’ a male.
Rimasi un po’ seccato dal fatto che John mi fosse passato sopra in quel modo… Quando gli mandai una lettera di protesta, ovviamente piuttosto contenuta nei toni, egli rispose con charme e arguzia assolutamente tipici, dicendo che si era comportato come un sarto al quale un cliente ordina un vestito su misura e poi non si fa più vedere: semplicemente, aveva venduto il vestito a qualcun altro! — TIMOTHY LEARY
Lennon fu, però, poi condannato per plagio per il primo verso della canzone, molto simile ad una strofa di Chuck Berry e, come riparazione, incluse alcune canzoni dell’editore di Berry nel suo album del 1975 Rock’n’Roll. Molto suggestiva e dolce Because, che si ispira dichiaratamente alla famosa Sonata al chiaro di luna di Beethoven: tutto iniziò suonando gli accordi della sonata alla rovescia. Come è cambiato lo scenario da quando anche i Beatles, con la cover di Roll Over Beethoven, irridevano il grande musicista e la musica classica in generale! Il talento di Paul si rivela, invece, soprattutto nella superba e variegata You Never Give Me Your Money e nella grande maestria con cui lega frammenti di canzoni inedite sue e di John in un trascinante medley della seconda facciata del vinile, l’espressione più innovativa dell’intero lavoro. I punti più bassi dell’opera sono costituiti, probabilmente, da Maxwell’s Silver Hammer (canzone odiata da Lennon), dal melodismo scialbo e banale che (purtroppo) sarà spesso ripreso appieno da McCartney nella successiva produzione discogafica da solista, nonché da Octopus’s Garden di Ringo Starr (certamente migliore come batterista che come compositore), che tuttavia alcuni estimatori hanno voluto definire “allegra e spensierata”. Per inciso, solo due anni dopo Ringo convincerà i critici con la sua bella canzone It Don’t Come Easy: purtroppo, dopo un po’ di tempo, si è scoperto che il pezzo era stato in realtà scritto da Harrison, che glielo regalò.
Abbey Road venne pubblicato nel Regno Unito nel settembre del ’69 e rimase al primo posto della classifica per ben diciotto settimane; anche negli USA ottenne un grande successo: pubblicato a ottobre, occupò il primo gradino per undici settimane consecutive. È sicuramente uno dei migliori dischi dei Beatles, caratterizzato da una interessante sperimentazione, seppur blanda, e un uso misurato, mai fine a se stesso, della nuova tecnologia, rappresentata, tra l’altro, dal moog. Un addio con grande classe.