Pubblicato il Settembre 19th, 2016 | by Paolo Formichetti
0MATTHEW PARMENTER: ritorno al passato
Matthew Parmenter è il leader dei Discipline, una delle band di punta del progressive statunitense anni ’90. Nonostante la produzione discografica del gruppo sia quantitativamente limitata, la qualità dell’ispirazione artistica e il carisma nelle esibizioni live sono rimasti inalterati negli anni. Parmenter, cantante e abile multi strumentista, compone per la band suite melodiche ed ammalianti a cavallo tra Genesis e Van Der Graaf Generator, ma è anche autore di interessantissimi lavori solisti che ne svelano il lato più intimista e cantautorale. Spesso accostato a Peter Hammil come stile ed interpretazione vocale, l’artista statunitense ha pubblicato all’inizio del 2016 il suo terzo album, All Our Yesterdays…
La tua carriera da musicista è iniziata quasi 25 anni fa: quali sono state le maggiori soddisfazioni che ti ha riservato?
I Discipline hanno iniziato a realizzare musica nel 1987: considera che a quel tempo non esisteva internet e noi pensavamo di essere i soli a comporre un tipo di musica che ci piaceva chiamare “art rock”, in onore ai primi Genesis. Ricordo che sentii parlare del primo disco dei Marillion, Script for a Jester’s Tear solo nel 1987, dal tipo che ci aiutò nelle registrazioni del nostro primo demo (un singolo di 10 minuti intitolato Peacemaker). In quegli anni ci creammo un certo seguito nella scena locale di Detroit, sebbene fossimo una strana band che componeva strane canzoni. Il nostro stile non era così di moda in città, ad essere sinceri, tanto che provammo a cercare altre band con le quali organizzare dei concerti ma senza fortuna. Devo dire che ci sentivamo abbastanza soli. Poi per una serie di coincidenze, nel 1993, ci venne proposto di effettuare un breve tour in Norvegia per supportare il nostro primo album, Push & Profit. In quell’occasione un appassionato di prog norvegese mi fece scoprire il termine progressive rock e i vari newsgroup su internet, qualcosa di simile ai blog di adesso. Nelle settimane successive il tipo mi segnalò un sacco di post tratti da “alt.music.progressive” e mi mise al corrente di un prog festival che si sarebbe tenuto di lì a poco in California: il ProgFest. Fu bello scoprire che non eravamo i soli a suonare quel tipo di musica e che c’erano migliaia di appassionati. In molte discussioni si parlava di vecchie band come King Crimson o Gentle Giant, ma in altre si parlava anche di band attuali. Contattammo gli organizzatori del ProgFest e uno di loro, Greg Walker della SynPhonic, divenne il distributore del nostro CD. Greg mi fece ascoltare tante band di cui non avevo mai sentito parlare, tra cui alcune italiane come Locanda delle Fate e Balletto di Bronzo. Mi fece inoltre conoscere alcune band che avrebbero suonato nell’edizione del 1994 del ProgFest, come gli Anekdoten e gli Echolyn. Alle volte ripenso alle strane coincidenze che ci portarono a scoprire questa scena prog un po’ nascosta e sono molto lieto che le cose siano andate in questa maniera, dal momento che ci permisero di farci conoscere pian piano anche da un pubblico che nemmeno pensavamo potesse esistere. Il titolo di un grande album degli Yes, Fragile, avrà sicuramente un altro significato per chi lo ha composto, ma per me questa parola rappresenta la strana musica che ebbi il piacere di conoscere a quel tempo.
Hai qualche rimpianto? Se potessi tornare indietro cambieresti qualcosa delle tue scelte artistiche?
Raramente mi volto indietro a guardare il passato. Sembra una frase fatta ma è la verità, almeno fino ad oggi. Tendo sempre a guardare al futuro. Artisticamente, in qualità di compositore ho pochi rimpianti. Mi sono spesso chiesto come sarebbero potute andare le cose se nel 1995 non avessimo rotto un contratto con un’etichetta che preferisco non menzionare. Mi chiesero di cambiare un testo che a loro dire offendeva la loro “sensibilità cristiana” e io rifiutai. Dopo una gran perdita di tempo ed energie per cercare di difendere la mia canzone e la mia licenza poetica, preferii restituire il loro anticipo e rompere il contratto. Con la band pubblicammo Unfolded Like Staircase in maniera indipendente due anni più tardi per la nostra etichetta, la Strung Out Records. Divenne il nostro maggior successo di vendite, ma mi sono sempre chiesto dove saremmo potuti arrivare se avessimo affidato l’album a una vera casa discografica. Se invece penso a me stesso come musicista, alle volte vorrei aver passato più tempo a studiare il violino e vorrei aver approcciato la teoria musicale in maniera più seria. Ovviamente sono in grado di leggere e scrivere musica, ma con una certa lentezza. Comunque, riflettendoci, se avessi studiato di più il violino probabilmente non avrei avuto tempo per i Discipline, quindi forse è stato meglio così. Lo studio del violino mi ha influenzato come persona: non sarei come sono se non lo avessi studiato. L’ho amato e odiato allo stesso tempo. Per me è stata una specie di religione. Se potessi tornare indietro nel tempo mi piacerebbe ritrovare quel ragazzino che ha speso parte della sua giovinezza da solo al pianoforte scrivendo canzoni. Gli direi che avrebbe trovato prima o poi il suo posto nel mondo ma dubito che mi avrebbe creduto.
Parliamo di All Our Yesterdays: intanto mi puoi raccontare qualcosa sulla copertina? Questa volta hai deciso di celebrare il tuo alter ego, l’acido mimo magico…
Matthew Kennedy è l’artefice della copertina. Un giorno, al telefono, gli accennai al titolo che avrei voluto dare al disco, All Our Yesterdays. Gli confidai anche che forse mi sentivo pronto a mettere una mia foto in copertina. Spesso in passato avevamo scherzato sull’argomento, dicendo che mettere la propria foto sulla cover di un disco era una roba tipica da musicista pop egocentrico. Gli dissi che in ogni caso ci stavo ancora pensando. Un paio di giorni dopo Mat mi ha inviato un e-mail con una bozza della cover, molto simile a quella definitiva, nella quale aveva usato una foto che mi aveva scattato un paio di anni prima. Catturava perfettamente lo spirito del disco. Ho chiesto un parere ai miei figli e mi hanno detto che secondo loro faceva un po’ paura. Perfetto! Mi piace che sembri una foto antica, fuori dal tempo. Un album che parla di “tutti i nostri ieri” deve apparire senza tempo.
Questa volta ti sei affidato ad un mago del mixer come Terry Brown, celebre collaboratore di Rush e Fates Warning. Come ti sei trovato a lavorare con lui?
Ho avuto avuto la fortuna di incontrare Terry Brown quando ho registrato le backing vocals per gli ultimi due album dei Tiles, dato che era lui il produttore. Lavorare al mio disco è stato sorprendentemente facile, piacevole e molto gratificante. Terry è entrato molto in sintonia con i personaggi musicali che ho cercato di ritrarre in questo album. O come Terry ha detto, ha capito la mia “filosofia”. Considerando la sua esperienza, ero preoccupato che potesse trovare dei difetti nelle ritmiche irregolari che sono presenti nell’album, o essere scontento della poca precisione generale che caratterizza alcune delle tracce. Coscientemente ho scelto di non utilizzare il metronomo nel disco e questa cosa si sente. Non ci sono loop di batteria, tutto è fatto manualmente. Anche la batteria elettroacustica di I Am a Shadow è stata suonata in tempo reale. Ecco perché quella canzone ha un feeling e un groove così particolare. Fortunatamente Terry non si è mai lamentato. Anzi, è sembrato condividere in pieno lo spirito con cui avevo realizzato le canzoni, arrivando a infondere nelle registrazioni una bellezza che non avrei mai immaginato potesse esistere nelle tracce originali. Il disco conserva le imperfezioni e grazie all’opera di missaggio di Terry ci sono varie sorprese piacevoli ed inaspettate. Ha un certo respiro e suona pulito, vale la pena ascoltarlo in cuffia. Sono contento che Terry abbia accettato di lavorarci.
Per quanto riguarda le composizioni contenute nei tre album solisti, mi sembra che tu ti sia sempre più allontanato da uno stile che potesse essere direttamente ricondotto a quello dei Discipline. È stata una scelta pianificata a tavolino o hai semplicemente seguito il tuo istinto?
La musica dei Discipline colpisce sicuramente di più l’ascoltatore, è più rock. Questa energia manca nei miei lavori da solista, che al contrario richiedono di fare un passo verso di loro prima che le canzoni possano rivelarsi. Nei miei dischi ci sono delle imperfezioni, non presenti in quelli pubblicati dai Discipline, che io tengo molto a preservare, anche se può sembrare strano. Dal punto di vista estetico credo sia importante non essere troppo perfetti. Accade sempre qualcosa di magico tutte le volte che l’ascoltatore è chiamato a colmare alcune lacune o a fare un certo lavoro perché tutto funzioni al meglio. Forse è per questo motivo che alcuni cantanti che cantano in maniera leggermente stonata hanno un fascino molto difficile da imitare, sempre che tu riesca ad andare oltre la stonatura. Ascolto la musica di Thelonious Monk, la maggior parte della quale è stata registrata dal vivo, ed è piena di imperfezioni e linee di piano incomplete. Le idee all’interno della musica di Monk si formano completamente nella mente di chi ascolta. A proposito dell’autotune (software per la manipolazione audio che permette di correggere l’intonazione o mascherare piccoli errori o imperfezioni della voce, n.d.r.), penso che possa utile ma io preferisco evitare di utilizzarlo. Sarebbe in contraddizione con quanto ho detto poc’anzi. Se un ascoltatore non apprezza una canzone a causa di qualche piccola imperfezioni tecnica vuole dire che sta diventando troppo pigro.
Di cosa parla la traccia di apertura, Scheherazade? Sei rimasto affascinato dai racconti de “Le Mille e una notte”?
La storia di un re che uccide tutte le vergini a causa della sua gelosia mi è sembrato un buon tema da approfondire. Dal punto di vista musicale ho cercato di dare l’impressione di una serie di storie intrecciate tra loro introducendo la canzone con una linea vocale cantata in falsetto, in modo da farla sembrare quasi femminile. Questa stessa melodia riappare successivamente cantata con tono maschile. La coda, Danse du Ventre, ha sempre fatto parte della canzone, ed è composta da linee di chitarra interconnesse, sempre per continuare il tema della narrazione intrecciata. Leggendo “Le Mille e una Notte”, ci si trova ad andare sempre più in profondità nella storia. È come una notte piena di sogni uniti tra loro senza uno scopo o un finale. Non c’è via di uscita. Ho cercato di rielaborare la storia dal punto di vista privilegiato del re geloso, posseduto dal fascino delle storie ma al tempo stesso preoccupato di aver perso il controllo della situazione.
A mio avviso il top dell’album sono i due brani centrali, All For Nothing e All Our Yesterdays. Mi ha colpito in particolare nella seconda l’utilizzo di un testo tratto dal Machbet di Shakespeare…
All For Nothing nasce a seguito della lettura del libro di Darwin “L’origine delle specie”. Darwin sostiene a un certo punto del libro che le creature dotate di endoscheletro (lo scheletro interno, come quello dell’uomo, n.d.r.) sono nient’altro che creature progettate con un esoscheletro (scheletro esterno, come quello degli insetti, n.d.r.) e rivoltate al contrario. Darwin ha ipotizzato che gli organi adattati per un volo battuto negli invertebrati possano essere divenuti i polmoni in organismi simili a noi vertebrati. Questa cosa mi ha lasciato a bocca aperta. Per questo motivo ho scelto di utilizzare Darwin come spunto per la mia piccola canzone. Considerando tutto quello che succede oggigiorno con i progressi dell’ingegneria genetica, non mi meraviglierei se ora queste bizzarre idee darwiniane potessero in qualche modo essere messe in pratica. Sarebbe una specie di teatro degli orrori andato a male. All Our Yesterdays ha invece un’origine abbastanza prosaica. Ero a una festa e chiacchierando con un amico ci siamo trovati a parlare di Shakespeare. Nessuno di noi due era in grado di ricordare con precisione i versi del Machbet. Qualche giorno più tardi, mentre ero seduto al piano (e sicuramente più sobrio), ho scarabocchiato le parole e le ho messe in musica. Mi è venuto quasi automatico. Non credo che le scorderò facilmente, o almeno spero, dato che posso sentirle nella mia mente associate a una melodia. Il posizionamento di queste due canzoni al centro del disco funzionava bene dal punto di vista artistico. Entrambe le canzoni sono lente, iniziano con la parola “all”, e terminano con la parola “nothing”. Strana coincidenza, no? Il disco è strutturato come un viaggio dalla luce all’oscurità e ritorno. Volevo che la successione delle canzoni portasse l’ascoltatore in una sorta di viaggio eroico verso l’altro mondo e poi di nuovo indietro, come fosse un’odissea. Spero che l’ascoltatore si ritrovi un po’ cambiato alla fine di questo viaggio musicale.
Ho trovato strano l’inserimento di un brano piacevole ma più orientato al pop come Stuff in the bag subito dopo il precedente flusso di emozioni. Presumo che ci sia una ragione per questa scelta un po’ bizzarra…
Ho scelto di inserire Stuff in the Bag dopo All Our Yesterdays proprio allo scopo di svegliare l’ascoltatore. La batteria pop serve a scuoterlo dalle riflessioni in cui era sprofondato. Il contrasto mi è sembrato ironico, anche divertente. Ho visto un paio di persone ridere parecchio di questo contrasto anche se non sono mancate critiche negative da parte gente evidentemente priva di senso dell’umorismo. A parte l’ironia nella successione dei brani, Stuff in the Bag doveva essere allegra anche per trasmettere al meglio il suo messaggio. La canzone pone la domanda: “cosa significa per una persona essere sempre allegro e ottimista?”. Diciamo spesso che una persona “proietta un’immagine positiva”. Gli Junghiani (seguaci delle teorie psicanalitiche di Jung, n.d.r.) suppongono che noi proiettiamo sugli altri degli aspetti di noi stessi che non conosciamo o neghiamo, attribuendo ad altre persone certe immoralità quando poi le possediamo noi per primi, seppur ben nascoste nel profondo del nostro animo. Forse quest’immagine che alcuni proiettano è solo una facciata. Stuff in the Bag cerca di esplorare proprio questo. Alcuni critici l’hanno liquidata definendola una canzone pop sbarazzina, mentre io confido che gli ascoltatori vadano più a fondo ed arrivino a capire il reale motivo per cui questa canzone ha questa facciata così allegra e spensierata. Non dobbiamo permettere che una facciata di spensieratezza ci tragga in inganno e ci faccia pensare che una canzone, o magari una persona, non ha un suo spessore, una sua profondità. O meglio ancora, lasciamo che Stuff in the Bag divenga il capro espiatorio del disco. Gli ascoltatori sprezzanti copriranno la canzone con la vergogna che essi stessi provano per aver apprezzato in segreto un qualche motivetto pop. Quante persone hanno apprezzato da ragazzi canzoni sceme e poi da adulti se ne sono vergognati e le hanno disprezzate pubblicamente nascondendo il loro segreto? Questa tematica si adatta perfettamente al tema della canzone.
Mi puoi spiegare il significato di Consumption e perché tu abbia deciso di inciderla solo con voce e chitarra invece di arrangiarla come fai di solito?
Consumption è stata registrata in maniera così essenziale poiché è stata scritta SOLO per voce e chitarra. Suppongo che l’argomento necessitasse di un’espressione musicale semplice per esprimere pensieri semplici. Diventa sempre più difficile razionalizzare gli effetti del consumismo. Chiedo sempre al commesso del negozio di alimentari dove vado di usare buste di carta e non quelle di plastica che poi vanno a finire nella spazzatura. L’insensata produzione di rifiuti affligge tutti gli Stati Uniti e la maggior parte delle persone sembra andare avanti senza porsi alcuna domanda, anche perché spesso gli effetti di tutto questo non sono direttamente visibili. La ricerca del profitto porta a decisioni vergognose e le campagne pubblicitarie ci dicono che vale sempre la pena consumare. Imbottigliano l’acqua nella plastica e la gente la compra pagandola come se fosse una bibita. Qualcuno trae profitto da questi prodotti inutili e molta gente li compra pur non avendone necessità. Questo non ha senso per me e spero possa finire prima o poi. Perché non si possono fare leggi che impediscano gli imballaggi di plastica? O almeno tassarli per ripagare le spese di conservazione della natura.
Hey for the Dance somiglia ad uno spiritual con un finale blues, piuttosto diverso dal tuo usuale stile compositivo. È la tua prima composizione in questa diversa direzione musicale?
Suppongo che la melodia lenta e che cresce pian piano possa ricordare uno spiritual mentre la coda sembra voler essere più un pezzo ballabile vagamente blues. Cantare e ballare è un modo per celebrare la vita e cercare di allontanare il pensiero della morte. Questo è lo scopo di questa canzone. Con i Discipline spesso concludevamo i concerti con Homegrown, che era un pezzo lento e blueseggiante. Anche nel nostro primissimo disco (Order Out of Chaos, risalente al 1988 ma stampato in CD solo nel 2013, n.d.r.) c’è un brano con un feeling blues, Still Night, che era un classico dei nostri live al tempo del liceo. Probabilmente anche Dirty Mind, dal mio primo disco solista (Astray, del 2004, n.d.r.) strizza l’occhio al blues. Ho improvvisato con altri musicisti centinaia di volte su giri blues, ma sono una zappa in queste cose…
Questa volta hai scelto di far produrre l’album da un’etichetta invece di continuare come di consueto con l’autoproduzione. Ci puoi spiegare le ragioni di questa scelta?
La scelta di pubblicare il disco per un’etichetta deriva dal mio rapporto di collaborazione con Chris Herin, che è diventato sempre più stretto negli ultimi due anni. I Tiles, la band principale di Chris, hanno sempre pubblicato i loro lavori attraverso etichette discografiche. Visti i miei precedenti negativi con le case discografiche, di cui ti parlavo prima, ero determinato a continuare ad evitarle, ma è stato Chris a farmi cambiare idea. Nell’ottobre 2015 con i Discipline abbiamo suonato al Summer End Festival in Inghilterra. La nostra partecipazione al Festival è stata possibile soprattutto grazie al sostegno di Brian Watson, che ha insistito con gli organizzatori perché ci invitassero, prendendosi dei rischi finanziari pur di pagare le spese di viaggio di tutta la band. Quando ci siamo conosciuti di persona mi ha chiesto se stessi lavorando a qualche nuovo progetto e io gli ho parlato del mio terzo album solista dicendogli che stavo iniziando a riflettere sulla possibilità di pubblicarlo per un’etichetta discografica. Brian mi ha presentato allora ai dirigenti della Bad Elephant Music, che erano presenti al festival. Più tardi ho scoperto che il loro Amministratore Delegato era un fan dei Discipline fin dai nostri esordi. Ancora una volta un insieme di strane coincidenze e impegno personale mi ha portato a firmare il contratto con loro. Sono molto contento che la Bad Elephant Music abbia considerato questa raccolta di canzoni un po’ introspettive degna del loro catalogo.
Il disco non ha un minutaggio molto elevato e so che tu al contrario sei un autore molto prolifico. Ci sono brani che sono rimasti fuori dalla track list? Possiamo aspettarci un quarto disco solista a breve?
Prolifico non è l’aggettivo che userei per me stesso. Ho molte canzoni pronte ma tendo a rimandare a lungo il momento in cui registrarle. Il pericolo è che nel frattempo il mio gusto possa essere cambiato. Molte canzoni, che ho scritto quando ero più giovane, sono state definitivamente scartate senza essere mai state registrate. Per questo motivo penso che la cosa migliore sia registrare e pubblicare la musica poco dopo averla scritta, ma non sempre ho avuto questa possibilità. Ogni volta che sto mettendo su un live show, mi ritrovo a scrivere canzoni invece di allenarmi. Nel mondo della musica, naturalmente, scrivere una canzone non conta nulla se poi non la si pubblica, ma io vorrei continuare a comporre all’infinito. C’è anche un’altra ragione per cui per me è stato così utile collaborare con Terry Brown. Non solo lui ha infuso il mio lavoro con tutto il suo talento , ma mi ha portato con grazia fino al traguardo finale. Per quanto riguarda la lunghezza, il disco è nel solco degli album degli anni ’60 e ’70 che venivano pubblicati solo in vinile, per cui sotto i 45 minuti. Negli anni ’90, l’avvento e la sempre maggiore diffusione del CD ci ha spinto, come band, a pubblicare i nostri lavori in quel formato. Il CD permette minutaggi molto maggiori e ci siamo di conseguenza potuti allargare con la durata dei brani. Solo successivamente mi sono reso conto che quei dischi non potevano essere trasferiti su vinile proprio a causa della loro lunghezza. Per All Our Yesterdays ho deciso di eliminare un paio di canzoni in maniera da poterlo eventualmente pubblicare in vinile. Il formato di un disco è sempre stato importante per me sia come ascoltatore che come musicista. Sebbene molte persone al giorno d’oggi preferiscano scaricare i file dei singoli brani, per me questo non è certo il modo migliore per fruire il lavoro di un artista.
Cosa bolle in pentola invece riguardo i Discipline? State producendo nuovo materiale?
Come Discipline continuiamo a lavorare al nostro nuovo album anche se non sono ancora in grado di prevedere quando sarà pubblicato. Cercheremo di annunciare qualcosa verso fine anno.
Come mai Jon Preston Bouda, il vostro chitarrista storico ha lasciato la band? Ora che Chris Herin, chitarrista in forza ai Tiles, lo ha sostituito, come riuscirà a far fronte agli impegni delle due band?
Abbiamo un enorme debito di gratitudine nei confronti di Chris Herin che ha deciso di aiutarci divenendo il nostro nuovo chitarrista. Chris è sempre stato un fan del modo di suonare di Jon Bouda. Quando lui si è trasferito sulla costa ovest, circa due anni fa, Chris si è offerto di collaborare con noi per la parte live. Il resto è venuto da sé. Non abbiamo ancora capito esattamente come faccia Chris a dividere il suo tempo tra i Discipline e i Tiles. La buona notizia è che fino ad ora le due cose non sono mai entrate in conflitto. Tuttavia i Tiles hanno appena pubblicato il loro nuovo disco, Pretending 2 Run, per cui mi aspetto che Chris sarà piuttosto impegnato nell’immediato futuro.
Ci sono in programma esibizioni live del gruppo o tue da solista?
Ci sono in cantiere alcune esibizioni da solista o con la band nel prossimo autunno, ma ancora non c’è nulla di ufficiale. Attualmente non ci sono piani per tornare in Europa. Il mio passaporto è valido, ma chi può dire cosa succederà in futuro? In tutti questi anni non ci siamo dati da fare molto per avere ingaggi fuori Detroit. Più che altro abbiamo avuto inviti da parte di vari festival e solo così siamo riusciti a tenere concerti fuori dalla nostra città. Ciò ha reso i concerti degli eventi abbastanza rari, ma svolti sempre tra amici ed appassionati veri. Magari qualcosa di più arriverà in futuro…
Ci sono piani per pubblicare in DVD il Live in Gettysburg?
Attualmente non è prevista una sua pubblicazione in DVD. Per adesso è disponibile solo in streaming negli Stati Uniti. Amazon ci ha recentemente informato che presto sarà disponibile per lo streaming anche in altri paesi, tra cui alcuni europei. La cosa è positiva dal momento che la maggior parte dei nostri fan vivono proprio in Europa.
Hai un messaggio per i tuoi fan italiani?
Come al solito voglio ringraziare gli appassionati che ci hanno scoperti e trovati sebbene la nostra musica non abbia molta visibilità. Penso che molti ci abbiano scoperto attraverso il passaparola tra appassionati e lo apprezzo veramente.