Pubblicato il Novembre 28th, 2016 | by Massimo Forni
0JETHRO TULL – A Passion Play (1973)
Tracklist
Lato A
1. A Passion Play
Lato B
1. A Passion Play
Personell
Ian Anderson – flute, acoustic guitar, soprano and sopranino saxophones, vocals ● Martin Barre – electric guitars ● John Evan – piano, organ, synthesisers, vocal ● Jeffrey Hammond – bass guitar ● Barriemore Barlow – drums, timpani, glockenspiel, marimba
La voce di Raffaele Cascone (conduttore della trasmissione Per voi giovani) arrivò via radio, ma mi sembrò di vedere distintamente il suo viso contrariato quando, più di quarant’anni fa, disse: “Vi faccio ascoltare qualcosa del nuovo album dei Jethro Tull, A Passion Play, lanciato sulla deludente scia di Thick as a Brick. E così scelse il brano n. 8 della suite, ritenuto (giustamente) il migliore, in un’opera per lui globalmente non convincente…
Dopo una sola settimana, allorquando il disco entrò direttamente al quinto posto della classifica degli album più venduti in Italia, lo stesso conduttore, con espressione sorpresa, esclamò: “Evidentemente i Jethro Tull sono rimasti ben saldi nel cuore degli appassionati italiani!”. E così, con poche battute prendeva il via anche in Italia un serrato dibattito su questo disco, pubblicato nel 1973, all’epoca criticato aspramente dalla stampa specializzata, successivamente rivalutato (quanto meno in parte), ma che rimane, comunque, il più controverso dei Nostri. Osannato negli USA, in Europa le critiche furono, invece, esageratamente feroci: i giornalisti parlarono di “quintessenza della prolissità e della noia”, ritenendo che si trattasse di una evidente degenerazione stilistica dell’opera precedente. Sicuramente non era facile ripetersi dopo un capolavoro come Thick as a Brick, ma quando Ian Anderson disse che si trattava del suo album preferito, a molti sembrò un’affermazione provocatoria. Come se non bastasse, il musicista decise, per ripicca, di sospendere temporaneamente l’attività concertistica.
Come lavoro d’insieme penso che A Passion Play sia il miglior disco inciso dai Jethro Tull. Ci sono delle cose molto belle in War Child e Minstrel in the Gallery, ma non credo che possano reggere il confronto con A Passion Play. Sono ancora emotivamente molto vicino a quell’album e specialmente allo spettacolo. Sono del parere che la stampa non ha capito un cavolo, nemmeno del mio tanto pubblicizzato ritiro. Un giorno riascolteranno A Passion Play e si renderanno conto di quanto ignoranti e pomposi erano stati nei miei riguardi e in quelli del gruppo… — IAN ANDERSON
D’altronde, non bisogna meravigliarsi più di tanto di queste polemiche, essendo gli anni ’70 il periodo consacrato agli estremismi di ogni genere. Si tratta di una suite unica, un album concettuale, che trae ispirazione dal modello del disco precedente: i Jethro Tull, dopo il rock-blues dei primi tempi, abbandonano momentaneamente la forma canzone per approdare a un originale ed elegante (talvolta pomposo) folk prog. Le affinità espressive e stilistiche con Thick as a Brick (un mosaico sonoro maggiormente solido, omogeneo) non mancano, ma gli umori qui sono diversi. Già il titolo “Un dramma della passione” e l’immagine della ballerina morta, che appare sulla copertina, sono sufficienti ad esplicitare un taglio più serioso rispetto al precedente lavoro, una marcata cupezza, una maggiore drammaticità narrativa, che si sviluppa intorno al tema della vita e della morte.
A Passion Play risulta meno fluido e spontaneo rispetto al precedente concept album ed è stato giustamente ritenuto criptico e pretenzioso; aggiungerei, privo dei necessari presupposti culturali. Anderson si ispira, in modo confuso ed irriverente, alle rappresentazioni sacre medievali della tradizione inglese, con la pretesa della modernità. E’ una sorta di viaggio dantesco nella vita ultraterrena, accompagnato da un libretto teatrale della storia, in cui i personaggi sono la chiara trasposizione dei musicisti della band e, precisamente: Ian Anderson, mente creativa del tutto, impegnato alla voce, flauto, sassofono e chitarra acustica, Martin Barre alla chitarra elettrica, Jeffrey Hammond-Hammond al basso e alla voce recitante, Barriemore Barlow alla batteria e percussioni e John Evan al piano, organo e sintetizzatori. Il protagonista, il pellegrino Ronnie, al suo ritorno alla vita mediante la reincarnazione, dopo aver visitato il Paradiso e l’Inferno, non fornisce una risposta precisa, non accetta né Dio né Satana, non vuole, o non sa, scegliere tra il bene e il male. L’autore, con gusto dissacratorio e nichilistico, moltiplica i riferimenti mitici ed esoterici, in un risibile coacervo di situazioni, per mascherare i propri limiti. Sul Melody Maker appare una recensione dal titolo “Crime of passion”, che parla di “una danza macabra, dove gli ascoltatori stentano a capire le intenzioni dei Jethro Tull, perduti nella nebbia dell’oscurità e della petulanza”.
Sicuramente degni di maggiore interesse sono gli aspetti musicali dell’opera. La limitazione delle parti flautistiche, con inserimento del sax soprano e sopranino, evidenzia la volontà di adottare soluzioni sonore originali, in una dimensione maggiormente corale dell’assieme, con interventi dei musicisti sempre misurati, appropriati, mai fini a se stessi, e una tessitura musicale elaborata, con sviluppo di melodie dal fascinoso sapore evocativo. Già nella prima facciata del vinile non mancano i momenti intensi, gli spunti brillanti, gli eleganti fraseggi, intervallati, però, da situazioni di incertezza, da percorsi tesi alla ricerca di soluzioni che sembrano non arrivare mai, in una diffusa sensazione di incompiutezza, di disorientamento. Tralasciata la bizzarra parentesi umoristica della “Lepre che perse gli occhiali”, una sorta di favoletta recitata ed accompagnata dall’orchestra, dopo avere stentato in qualche momento a prendere quota, con i brani 8, 9 e 10 gli artisti inglesi si librano finalmente, in modo magistrale, in un volo affascinante ed incalzante, dal superbo impatto, un viaggio dalle tinte epiche, senza esitazioni e ad altezze vertiginose. Un buon disco, non un capolavoro.