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Pubblicato il Gennaio 18th, 2017 | by Paolo Carnelli

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Francesco Gazzara (Gazzara Plays Genesis, The Piano Room)

Compositore, in proprio e per colonne sonore, scrittore, produttore, amante del prog e del mondo Genesis in particolare ma attivo con successo anche in ambito jazz. Francesco Gazzara rappresenta bene il modo in cui si possono coniugare inclinazioni e sensibilità differenti sempre nel nome della buona musica. Recentemente ha dato vita a due suggestivi progetti: The Piano Room e Gazzara Plays Genesis. More info: www.gazzara.org

GENESIS – Genesis Live (1973)
Il mio vero battesimo, capitato per caso a 12 anni durante una visita alle bancarelle di Porta Portese. Il sound caldo e misterioso, la progressione di Watcher Of the Skies, il palco con le tende turchese e i musicisti seduti in semicerchio, la folle storia gabrieliana sul retro, The Knife annunciata con quel timbro vocale unico: impossibile non farne la colonna sonora del film immaginario della propria adolescenza. E sull’isola deserta il tempo passa veloce tra testi sci-fi, mellotron e bass pedals…

GENESIS – Duke (1980)
Il primo disco dei Genesis comprato con l’attesa dell’uscita. La disillusione dovuta alla fine dell’era prog cede immediatamente il passo all’ammirazione incondizionata per la scrittura pop, per le sonorità delle tastiere, per la capacità unica nel rendere estremamente “consistente” il drumming e la profondità dei bassi. Un album che mi consumò un ottimo paio di casse artigianali made in Cambridge, per via della reiterata riproduzione dell’attacco di Behind The Lines e di Duke’s End. Per un attimo, i Genesis erano la cosa più “cool” che ci fosse…

MIKE RUTHERFORD – Smallcreep’s Day (1979)
Il suo punto di forza è l’equilibrio di una triade unica: la scrittura ancora onirica di Rutherford, le idee timbriche dell’amico di sempre Anthony Phillips e la voce tutt’altro che prog di Noel McKalla. Neanche il timbro soul di Paul Carrack coi Mechanics ha riprodotto un contrasto così emozionante. Ovvio, qui c’era un certa rilassatezza, e anche il tempo di sognare sulla storia dell’orologiaio Smallcreep. Il resto lo fanno i tempi dispari, così naturali nella canzoni di Mike, e la suggestiva commistione tra 12 corde acustiche e primi sintetizzatori giapponesi.

TONY BANKS – A Curious Feeling (1979)
Con quest’album capii quasi subito chi erano i Genesis, o meglio la loro quintessenza. Canzoni che iniziano e finiscono con un disegno unico, con una visione fatta di accordi concatenati, assolutamente mai da manuale, da cui scaturisce tutto il resto. Per un po’ ho immaginato la voce di Collins e Gabriel su queste tracce, ma poi tanto di cappello al compianto Kim Beacon, senza di lui l’album di Banks forse sarebbe stato meno originale. L’approccio sinfonico al mondo sintetico può essere a volte fuori luogo, ma in questo caso è la strada maestra, dove i singoli sintetizzatori dialogano tra loro come strumenti tradizionali, senza ripetizioni banali.

STEVE HACKETT – Please Don’t Touch (1978)
Un caso raro nel rock, quello di una band madre (Genesis) dove alcuni dischi degli elementi solisti sono perle assolute alla pari degli album del gruppo. E qui colpisce soprattutto la diversità dei ritratti musicali pennellati da un Hackett incontenibile: quello folk-fantasy di Narnia, quello parrocchiale tutto britannico di Carry Up On The Vicarage, e poi l’America notturna dai tratti romantici con le voci di Richie Havens (How Can I) e di un ancora poco nota Randy Crawford (Hoping Love Will Last). Il connubio tra la vocalità soul e l’orchestra barocca nella parte centrale di quest’ultimo brano lasciano immaginare come sarebbero stati i Genesis se Steve fosse rimasto con loro.

GENTLE GIANT – Octopus (1972)
Avendo scoperto i Genesis prima del progressive tout court, non è stato facile approfondire il resto del genere in tenera età con la stessa passione. Infiniti ascolti e molto vinile comprato, certo, dai King Crimson agli ELP passando per Jehtro Tull, Yes e Camel, ma la palma d’oro di un attaccamento sconsiderato simile a quello per gli album di Gabriel & co. va a questa perla dei fratelli Shulman più Kerry Minnear. Vinile gatefold disegnato da Roger Dean, dove Jules Verne incontra Francois Rabelais (The Advent Of Panurge) e Albert Camus (A Cry For Everyone). Un talento compositivo incredibile e un contrappunto vocale che ancora fa venire la pelle d’oca.

THE WHO – Quadrophenia Original Soundtrack (1979)
Apparente cambio di marcia totale, se si considera che sulla mia isola deserta echeggia soprattutto prog. Eppure qui il paragone più indicativo è quello di chi, ogni tanto, ha bisogno di assistere a un concertone rock ricco di decibel e soprattutto un’energia incontenibile guidata da un 4/4 mai banale. In più c’è l’epopea Mod, che rende questa soundtrack più varia e generazionale rispetto a quello che comunque è il capolavoro della versione in studio. Il quarto lato del vinile, dove gli Who ancora chiamati High Numbers sono accanto ai classici dei dancefloor della Soho dei ’60’s (Night Train), bilancia alla grande il resto di un grandissimo album rock, aperto dal suono del mare e dal fragoroso drumming di Keith Moon su The Real Me. Più british di così è difficile…

THE STYLE COUNCIL – Cafè Bleu (1984)
Non è un caso che questo sia l’album più recente che porto nell’isola deserta. Ha molto di autobiografico, segnando il mio passaggio come musicista/tastierista dagli esordi prog a un lungo periodo di studi, dischi, collaborazioni e concerti legati al jazz e al blues. Ma soprattutto freschezza: la quintessenza del sound “cool”, del recupero di atmosfere Blue Note ben prima dei vari revival lounge, l’impegno politico di Weller, Talbot & White, l’invenzione di non includere quasi mai i singoli negli album. Se negli anni ’90 è esploso l’acid jazz, da Jamiroquai in poi, lo si deve in particolare a questo lavoro.

EUMIR DEODATO – Deodato 2 (1973)
Non è stato l’album più fortunato di questo grande pianista e arrangiatore brasiliano, soprattutto dopo il precedente successo planetario di Also Sprach Zarathustra versione funk. La tracklist, perfettamente bilanciata tra repertorio classico ‘800 e ‘900 (da Ravel a Gershwin), hit recenti (Moody Blues) e un paio di brani originali utilizzati per decenni da radio, videogiochi e pubblicità, sottolinea da sola l’importanza di questo disco (l’ultimo della label CTI, con Stanley Clarke al basso). Eppure sono i dettagli timbrici e ritmici che lo rendono inarrivabile: le orchestrazioni degli archi, soprattutto nell’attacco di Pavane For A Dead Princess (Maurice Ravel) dove il basso del piano Rhodes dialoga con i violini, o ancora nella linea di basso di Skyscrapers, per me la fotografia più bella di sempre dello skyline di Manhattan.

PINK FLOYD – Animals (1977)
Precisazione necessaria: l’intera discografia dei Floyd fino a The Wall è stata oggetto dei miei acquisti e studi da tredicenne alla scoperta del rock e delle tastiere, alla pari di quella dei Genesis. Qui però è spuntato il germoglio per un valore in prevalenza figurativo della musica, in altre parole la mia infatuazione per le soundtrack che poi mi ha portato proprio a lavorare nel mondo della musica per immagini. Una passione più fredda forse, ma totalmente cieca nel caso di quest’album. Forse anche perché a meno di due anni dalla sua uscita, in viaggio a Londra con i miei genitori, mi trovai davanti agli occhi la vera Battersea Station (senza maiale) ritratta in copertina. Da quel momento vista, udito e olfatto mi spinsero più a fondo nel concept animalesco di Waters, non tanto però nei suoi risvolti intellettuali quanto nelle geniali trovate in sala di incisione, tra rumorismo canino, effettistica e l’immensa capacità di creare un sound scolpito nella pietra (come quella della Battersea Station, appunto).

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