Pubblicato il Settembre 8th, 2016 | by Roberto Paravani
0Flash Featuring Ray Bennett & Colin Carter (2013)
1. Night Vision
2. Hurt
3. Something So Dark
4. Manhattan Morning
5. Into The Sun
6. Grand Canyon
7. Morpheum
8. 10,000 Movies
9. Richerd Of Venice
Etichetta Purple Pyramid/CD
Durata 58’47”
Colin Carter (lead vocals, rhythm guitar) ● Ray Bennett (electric & acoustic guitars, vocals, bass, keyboards & percussion) ● Mark Pardy (drums) ● Paul Pace (drums) ● Wayne Carver (bass) ● Rick Daugherty (keyboards)
18 aprile 1970: Peter Banks suona per l’ultima volta con gli Yes. Dopo il concerto viene licenziato da Jon Anderson e Chris Squire. Banks però non si da per vinto e nell’agosto del 1971 forma i Flash con il cantante Colin Carter, il bassista Ray Bennett e il batterista Mike Hough, ripartendo da uno stile che ricorda parecchio quello degli Yes della prima formazione. Il gruppo realizza tre album: Flash (1972), In The Can (1972) e Out Of Our Hands (1973) prima di sciogliersi nel novembre del 1973. Passano gli anni, quasi quaranta, e i Flash si riformano e suonano al ProgDay del 2010. Della formazione iniziale sono rimasti solo Colin Carter e Ray Bennett (promosso alla chitarra solista) cui si affiancano Wayne Carver (basso), Mark Pardy (batteria) e Rick Daugherty (tastiere); il gruppo però non si accontenta di una comparsata celebrativa e inizia anche a registrare del nuovo materiale. Durante le registrazioni Banks muore improvvisamente ma, corre voce che prima di morire avesse ascoltato alcuni brani del nuovo album giudicandoli positivamente. Ora il lavoro è “finalmente” nelle nostre mani e la confusione è chiara sin dalla copertina, visto che non si capisce se Featuring Ray Bennett & Colin Carter sia il titolo dell’album o solamente una parte del nome del gruppo. Il CD è composto da nove brani di cui due strumentali: sette sono pezzi creati per l’occasione mentre Hurt è una goffa cover di un pezzo dei Nine Inch Nails mentre Manhattan Morning è una riproposizione affannata di un vecchio brano del gruppo. Sin dal primo ascolto salta subito all’orecchio che la fresca esuberanza degli esordi è andata perduta in favore un rock chitarristico stantio e poco ispirato. Aggiungiamo anche che la voce di Carter è completamente arrugginita, che la produzione non esiste, che la registrazione è artigianale, che il solismo di Banks (che non era certamente un fenomeno delle sei corde) si fa rimpiangere parecchio e il quadro totale è completato. Si salva solo Richerd Of Venice perché, in quanto strumentale, ci risparmia l’ascolto della voce legnosa di Carter, perché mette in mostra lo scintillante e cristallino talento pianistico di Daugherty (che avrebbe meritato molto più spazio nel resto del disco), e perché, in quanto ultimo brano, rappresenta il traguardo di un ascolto faticoso e per nulla appagante.