Pubblicato il Novembre 28th, 2017 | by DDG
0Everything Everything: pop dall’epicentro dell’esplosione
Quando il video del singolo d’esordio Photoshop Handsome entra in rotazione sul canale rock della MTV UK, le immagini vagamente disturbanti e la bizzarra frenesia ritmica lasciano il segno: e il pubblico anglosassone si appassiona agli echi di tanta inglesità pop – Cardiacs e XTC su tutti, ma anche i King Crimson degli anni ’80 e i dimenticati Punishment of Luxury, messi nelle corde di un quartetto di una generazione successiva ai padri citati, che scrive col laptop invece che col piano, e che però riporta poi tutto a un suono formalmente classico – basso, batteria, chitarre e cori, a una velocità doppia rispetto a quella dei già ansiogeni Futureheads. A margine di un concerto italiano, il cantante-tastierista (e responsabile dei curatissimi video e dell’immagine della band) Jonathan Higgs e il chitarrista Alex Robertshaw (che col bassista Jeremy Pritchard e il batterista Michael Spearman compongono tuttora la band) all’epoca spiegavano che le parentele erano inconsce: molti ci dicono che sentono XTC e King Crimson nelle nostre canzoni, ma non si tratta di vere influenze, credo che semmai arriviamo al concetto di musica pop da un’angolazione simile, e questo si traduce in risultati simili. Sicuramente condividiamo l’approccio, l’etica di alcune di queste band rispetto a ciò che la musica pop dovrebbe essere…
Le definizioni sono sempre fallaci, ma in questo caso quel “prog-pop” già speso per gli amici Dutch Uncles e per i Field Music, ricercatori in terre contigue, potrebbe essere una sigla appropriata: perché quelle che escono dal laboratorio del quartetto sono canzoni fitte di idee stratificate, ma in un formato che mette la melodia (e, spesso, il groove) in primo piano, rispetto agli intrecci ritmici e alle armonie ardite. Se la densità della materia dei Cardiacs (…erano un gruppo degli anni ’80, vero?) urla la propria complessità, quella degli Everything Everything la maschera dentro il formato da tre-quattro minuti del pop: il recente A FEVER DREAM (2017) è a oggi l’apice di una ricerca che merita attenzione.
MAN ALIVE (2010). Difficile parlare dell’esordio su lunga distanza degli Everything Everything senza ricorrere a superlativi: nei 52’ di MAN ALIVE (Geffen, 2010) vengono toccate tutte le declinazioni del pop sperimentale del quartetto, che sa essere pieno e frenetico (il già citato singolo Photoshop handsome e il suo contraltare Qwerty finger, o la più melodica Come alive Diana), quasi dance (MY KZ, YR BF, Schoolin’) o rarefatto (Tin (The manhole)). R&B e math rock, elettronica e new wave, e anche qualche ombra di psichedelia: musica progressiva in senso moderno, che fa ricerca con l’approccio dei Radiohead, anche se nei più luminosi territori del pop. Le poliritmie frenetiche, i testi intricati di Jonathan Higgs, efficaci nonostante la verbosità, e la voce particolare (spesso in registro di falsetto) danno immediata riconoscibilità allo stile del gruppo, ma a colpire è soprattutto la capacità di maneggiare la materia in modo da renderla toccante e coinvolgente, piuttosto che tecnica: Final form è struggente nella musica come nel commovente ricordo di cui tratta, e le “ballate” (Nasa is on your side, Leave the engine room), pur nelle loro visibili anomalie, trascinano al coro. Menzione speciale per il secondo singolo, Suffragette suffragette, col suo irresistibile canone corale finale: nel video della versione precedente a MAN ALIVE (con ancora Alex Niven al posto di Robertshaw), i quattro musicisti sono vestiti da scienziati, e la macchina assurda che costruiscono è una efficace metafora di quanto gli Everything Everything stanno sperimentando in studio e sul palco.
ARC (2013). Un esordio così forte ha delle inevitabili conseguenze: la visibilità improvvisa, testimoniata da premi e riconoscimenti ottenuti soprattutto in UK, fa sì che passino tre anni prima che la band provi a dare seguito a MAN ALIVE. ARC (Sony, 2013) dimostra efficacemente che la ricerca è andata avanti, anche se il risultato, pur se eccezionale, è inevitabilmente meno sorprendente: se nel lavoro di sottrazione con cui i quattro compongono (partendo spesso dagli intricati spunti di Jonathan, poi riportati a strutture pop dal gruppo: in genere l’idea prende forma al laptop, prima che ci vediamo per lavorarci tutti insieme…) viene privilegiato il versante danzabile (i due singoli Kemosabe e Don’t try), irregolarità ritmiche e frenesie sono sempre presenti (Cough cough) e quando il ritmo rallenta le canzoni diventano più profonde (Duet, Radiant). Il successo conseguito all’esordio non ha cambiato l’approccio del quartetto: restiamo un gruppo di amici appassionati di un sacco di cose, inclusa la musica – Radiohead, Beatles, Aphex Twin, Kraftwerk, King Crimson, Dr Dre… Finire nella top 20 è stato grande, e ci ha permesso di imparare tanto, e di fare molti concerti, tutte esperienze nuove che hanno influenzato il processo di sviluppo di ARC. E in effetti ARC è un’opera seconda notevole, che riesce anche ad allargare la già ampia gamma di colori del gruppo, con l’unica colpa di non poter essere folgorante come il suo inatteso predecessore, che non c’è una seconda occasione per fare una prima impressione...
GET TO HEAVEN (2015). Penso che dovresti essere cieco e sordo, per aver vissuto il 2014 senza versare una lacrima: se dopo un anno del genere fai uscire un disco che è tutto fatto di sorrisi, sei solo un bugiardo. La foto che Jonathan Higgs fa dei temi trattati in GET TO HEAVEN (Sony, 2015) spiega senz’altro anche l’incupimento delle melodie: l’amarezza spunta anche quando le canzoni chiamano al coro (come nei singoli Regret – che maschera anche nei giochi di parole una dichiarazione di intenti – Do you think that Everything, Everything would change? – e Spring/Sun/Winter/Dread, dove le parole vanno a contrastare gli eventuali slanci delle melodie – no way, no way…), e nei brani che si possono ormai ricondurre a uno “stile Everything Everything” (che sta tra l’ansia di Distant past e la contemplazione di No reptiles). Per Jon, le differenze stanno tutte nell’epoca in cui il disco è stato scritto: le sensazioni che ti lasciava ARC erano la rassegnazione e una prospettiva cupa: stavolta, dall’inizio, volevo creare qualcosa in grado di far arrabbiare e desiderare di fare qualcosa, perché è così che mi sentivo. Il gruppo ha ormai una propria voce, e GET TO HEAVEN ne mostra sfumature differenti: di là dalla coerenza, sembra però arrivato il momento di un altro strappo, di una ripresa degli esperimenti, prima che la personalità si cristallizzi in maniera. In tournée permanente, il gruppo trova il tempo di incidere anche una sigla per BT Sport, prima di chiudersi nuovamente in studio con idee bellicose.
A FEVER DREAM (2017). Il nuovo disco riparte da MAN ALIVE, riprendendo tutte le diverse declinazioni sperimentate, e portandole in qualche modo oltre: e già dall’apertura di Night of the long knives, che mette insieme il trasporto di Final form e le aperture dance di Schoolin’, è chiaro che gli Everything Everything sono in stato di grazia. I ganci cantabili risuonano già al primo ascolto (Desire, Can’t do, Run the numbers), le frenesie ritmiche e verbali portano a strutture nuove (Ivory tower, Good shot, good soldier), e quando il ritmo rallenta emergono linee e suoni che ricordano quelli dell’esordio, ma sono altrove (A fever’s dream, New deep), in una progressione che promette ulteriori evoluzioni. Un disco nuovamente sorprendente, personale, anche se lontano dalla tentazione del “marchio di fabbrica”: pop, ma senza averne l’aria, capace di lasciare in testa anche le melodie irregolari, e far battere il tempo senza accorgersene, diviso tra ritmi contagiosi e parole che contraddicono la musica (…can’t do the things you want, can’t do the things you want, can’t do the things you want). Difficile fare paragoni, anche se sicuramente l’idea di ricerca progressiva associata ai Radiohead potrebbe attagliarsi anche a loro, come riconosce Jeremy: in effetti è sorprendente che non ci associno più spesso, dato anche che il nostro nome viene da una loro canzone… ma noi stiamo costruendo il nostro percorso personale. E A FEVER DREAM non è solo una summa riuscita, ma decisamente un altro passo avanti in una ricerca affascinante, che per Jeremy sarà ancora lunga. Noi stiamo già pensando al prossimo disco, è così che dovrebbe funzionare, guardare sempre avanti…