Pubblicato il Maggio 2nd, 2017 | by DDG
0Dutch Uncles – Schiavi del ritmo anomalo
Semplificare e distillare, tirando fuori melodie e ironia da ingredienti e influenze visibili e varie: tra quelle dichiarate, i tempi dispari e le idee prog di Focus, Neu!, Gentle Giant e King Crimson, il minimalismo di Steve Reich e i ritmi di Stravinskij, la wave spezzettata di Talking Heads e XTC, ma anche il groove di Prince e la sensibilità di Kate Bush. Il risultato sono intricate sinfonie art-pop da 3 minuti, che se agli inizi tenevano a volte l’ascoltatore in distanza a contare le battute, nella forma matura degli ultimi dischi riescono a evocare Scritti Politti, Steely Dan e Japan conciliando complessità e ironia. “Le guitar band seriose sono strafighe, ma deve essere davvero faticoso essere così seri tutto il tempo, nel pop ci deve sempre essere un elemento di umorismo: pensa a Morrissey, tutti immaginano che fosse un depresso, invece era solo sarcastico, era la sua maniera di essere spiritoso.” E fuori dalla discografia principale, oltre alle cover dei “dischi fuori moda dei nostri genitori” (Fleetwod Mac, Tears for Fears, Blue Nile…), si trovano esempi interessanti di quello che è per loro l’ironia, dagli inni per la nazionale di calcio inglese realizzati con gli amici (come Fabio Acapella, intreccio polifonico basato sui nomi della formazione, dove ogni melodia ha un tempo corrispondente al numero di maglia del giocatore) al singolo del Record Store Day 2013, Slave to the atypical rhytm, versione dispari della hit di Grace Jones che risponde ai critici sulle autoindulgenze math degli esordi. I cinque dischi pubblicati dal gruppo di Marple (quasi Manchester) sono invece densi di grandi canzoni pop, che domano e nascondono i ritmi anomali, fornendo alla voce androgina di Duncan Wallis (voce di tutte le citazioni dell’articolo) spazio e groove per storie, melodie e… bizzarre danze da concerto.
DUTCH UNCLES (Tapete Records, 2009) – L’esordio arriva un anno dopo un nuovo inizio marcato dal cambiamento di nome. “Suonavamo insieme da cinque anni, dal college, come Headlines: dodici mesi di delusioni, passati ad ascoltare Pet Sounds e a riguardare il DVD di Stop Making Sense ci hanno fatto cambiare approccio.” Dai Beach Boys assorbono le micro-sinfonie pop, complessità nascoste sotto melodie appiccicose; dai Talking Heads “…l’idea che suonare significa connettersi al pubblico, portare il ritmo, il funk, l’allegria, piuttosto che cercare di essere adorati.” L’esordio resta comunque acerbo: “erano, letteralmente, le nostre prime dieci canzoni”. Le composizioni minimaliste e dispari del bassista Robin Richards (i chitarristi Pete Broadhead e Daniel Spedding e il batterista Andy Proudfoot si limitano ad arrangiare) sono sicuramente una spanna sopra quelle dei gruppi math più oltranzisti, ma solo in pochi casi, come Jetson o Steadycam, si percepiscono i germi dello stile che verrà: l’espressione Dutch Uncles identifica quelli che criticano gli altri per educarli, e all’epoca i cinque vengono spesso visti proprio come professorini, senza cogliere l’ironia del nome.
Il singolo Face in, però, ottiene i riscontri che permetteranno di proseguire la carriera: il video vede Duncan vestito da sposa, una scelta simbolica. “Il matrimonio è un tipico argomento da canzoni: il ragazzo barbuto con l’abito bianco voleva essere un po’ una dichiarazione d’intenti, la spiegazione di dove ci volevamo piazzare nell’arco costituzionale del pop.”
CADENZA (Memphis Industries, 2011) – Altri due anni di apprendistato e concerti con i Futureheads (con cui condividono l’urgenza dei primi XTC) e l’arrivo di Brendan Williams, produttore e sesto componente invisibile della band, portano a CADENZA: le intenzioni bellicose vengono dichiarate dalle prime note del riff dispari di piano in apertura (origine della stroncatura che porta alla citata Slave to the atypical rhytm). Stavolta, però, le canzoni sono più solide, e il pubblico inizia anche a ballare. “Abbiamo sempre saputo che, quando fai un disco, lo fai per te, al nostro livello non è che ne venderai 40 milioni di copie; di là dalla leggenda della Factory, qua da noi si sa che anche negli ’80 i New Order non è che ci guadagnassero… Però, prima di questo disco, ai concerti vedevamo gente che stava ferma a contare le battute con le dita, e invece adesso no.” I singoli Fragrant, X-O, The Ink mostrano una via verso un pop di ricerca non lontano da quello dei Field Music (maestri riconosciuti dai nostri) ed Everything Everything. “Abbiamo reso più fluide le composizioni, ricorrendo ai tempi pari e aggiungendo elementi classici allo spettro, come xilofono e vibrafono”. Nell’estate del 2011 i cinque finiscono l’università e si dedicano a tempo pieno alla musica: e in Inghilterra, allo Hop Farm Festival, arriva Prince.
OUT OF TOUCH IN THE WILD (Memphis Industries, 2013) – “Quando lo abbiamo saputo, abbiamo preso il telefono e chiesto al nostro manager di farci entrare nel festival, a qualsiasi costo: siamo riusciti a inserirci su un altro palco, il che significava un biglietto gratis per tutti noi per quello che a oggi resta il più bel concerto mai visto.” L’effetto si fa sentire, e Robin si presenta dal socio con una canzone a suo modo danzereccia, intitolata provvisoriamente Pronce, che i due “de-Prince-izzano” efficacemente: Flexxin diventa il primo singolo del nuovo disco, ed è tuttora uno degli inni da concerto del gruppo. Trascinante e divertente, come il video con Duncan danzante in solitario, è solo una delle perle pop del disco: il tono può diventare più drammatico (Zug Zwang) o rilassato (Bellio) o avvicinarsi alla rarefazione dei Japan (Phaedra), ma suono e melodie hanno una personalità inconfondibile, con minimalismi e idee prog integrate in strutture talvolta funky, vestite di arrangiamenti stratificati di archi e percussioni, con le anomalie ritmiche in evidenza solo se funzionali al risultato. Il marchio di fabbrica della voce androgina si è pure evoluto: “A un certo punto ci dicevano che suonavamo come gli Hot Chip”, leggeri e freddi. Jonathan Higgs, cantante degli Everything Everything, aiuta il nostro a crescere. “Mi ha fatto capire che funzionavamo meglio quando cercavamo di urlare, come in Face in: tre minuti in cui con tutta la nostra complessità diventavamo una rock band, invece che dei new wave-math-pop geeks.” OUT OF TOUCH IN THE WILD trasmette l’energia di un gruppo che vuole suonare, “senza preoccuparsi troppo di contare o di restare precisamente in tono”.
O SHUDDER (Memphis Industries, 2015) – “Il progetto è sempre stato quello di fare qualcosa di zompettante, ma con dei testi un po’ malsani”: con O SHUDDER il gruppo raggiunge la piena maturità, centrando probabilmente l’ambizioso obiettivo di “rendere orgogliosi i genitori”, accoppiando alle composizioni rarefatte o danzerecce testi incentrati su morte, sesso e incesto, con l’umorismo nero tipico di Duncan. Dall’apertura languida di Babymaking al groove dei singoli Decided Knowledge (dispari, ancora una volta) e In ‘n’ Out, alla chiusa Steely Dan di Be Right Back (“Pensavamo piuttosto a Marvin Gaye…”), il disco non ha pause o punti deboli, alternando riflessioni wave alla Japan (Given thing) e trasporto pop (Upsilon), con momenti toccanti o trascinanti, capaci di coinvolgere il pubblico nelle bizzarre danze di Duncan. “Beh, un po’ bisogna esagerare, dal vivo: e la musica è così complessa, che comunque il pubblico guarda per lo più chi suona…” Archi, arpa, vibrafono e oboe perpetuano il suono da sinfonia pop, supportato da una ritmica decisa e dalle tessiture di tastiere, piano e chitarre. Un punto d’arrivo: e il chitarrista Daniel Sped Spedding ne è talmente convinto da lasciare il gruppo prima dell’avvio del tour di lancio, dopo oltre 10 anni con i compagni di college. “Fondamentalmente, Sped non si divertiva più: è dura da ammettere, ma abbiamo rovinato un’amicizia, da entrambe le parti.”
BIG BALLOON (Memphis Industries, 2017) – La reazione del quartetto al cambiamento è inattesa: esce una chitarra, e ci si concentra su un suono chitarristico (il pezzo di riscaldamento in sala diventa Hocus Pocus dei Focus), semplificando i processi e relegando il produttore a un lavoro di rifinitura su brani già definiti, anziché su demo incompiuti. Il risultato è un ritorno alle origini, che qua e là richiama il suono nervoso dei primi XTC e dei Futureheads: una summa dei dieci anni di Dutch Uncles, realizzata tenendo l’asticella alta. “Per ogni canzone c’è voluto più di un mese per essere convinti da musica e testo, volevamo dieci momenti di pura magia.” Le intricate mini-sinfonie presentano ora visibili risvolti funky, e una urgenza alienata ben comunicata dai ritmi spezzati e dai flussi di parole. Il singolo omonimo è un capolavoro pop, spinto dal basso frenetico in primo piano fino all’apertura melodica di un ritornello memorabile (“l’unico brano composto in pochi minuti!”); ma come nel precedente O SHUDDER è difficile trovare punti deboli, tanto è il bilanciamento tra pause liriche (Achameleon, quasi David Sylvian), ganci pop (Hiccup, o l’omaggio a Prince Oh Yeah, scritta pensando chiaramente a Let’s Go Crazy, e finita vicina ai migliori Scritti Politti), influssi wave (Streetlight e Sink, “partita da un groove prog/Donna Summer/Todd Terje”), con punte di aggressività poco usuali per il gruppo (Same Plane Dream, col suo testo sociale). Una scaletta compatta (36’) e molto efficace anche dal vivo: il concerto di presentazione nei Granada Studios, dove BIG BALLOON è stato registrato, merita una visione. Per la cronaca, tra il pubblico si riconoscono Everything Everything e Two Door Cinema Club, che avevano inciso coi nostri nel 2012 Road to Roy, un altro comico inno per la nazionale inglese.