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Pubblicato il Febbraio 20th, 2017 | by Paolo Formichetti

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DREAM THEATER – Roma, Auditorium Parco della Musica, 30/01/2017

La love story musicale che mi lega ai Dream Theater è veramente di lunga durata: ho iniziato a seguirli fin dal loro disco di esordio, dopo averli scoperti grazie ai suggerimenti che Richard Benson dispensava al tempo nel programma televisivo “Ottava Nota”. L’occasione per assistere ad un loro concerto arrivò qualche anno dopo, in occasione del tour di AWAKE e della loro prima data romana che li vide esibirsi il 6 marzo 1995 al Teatro Palladium di Roma con i Fates Warning come gruppo di apertura. Quella serata rappresentò per il sottoscritto una sorta di meraviglioso imprinting nei loro confronti, nonché una pietra di paragone (ineguagliata) con la quale confrontare i numerosi concerti che avrei visto negli anni successivi.

L’occasione per tornare a rivivere le passate emozioni si è recentemente presentata grazie al lungo tour celebrativo del venticinquennale di IMAGES AND WORDS che ha preso il via proprio il 30 gennaio scorso nella prestigiosa location della Sala Santa Cecilia all’Auditorium Parco della Musica di Roma. La sala è completamente piena di un pubblico variegato: fan della prima ora un po’ attempati, giovani metallari che probabilmente di progressive sanno poco e nulla, un discreto numero di ragazze in genere quasi del tutto assenti ai concerti prog. Alle 20,30 spaccate si spengono le luci e la band fa il suo ingresso su un palco piuttosto spoglio ma dotato di un buon impianto luci. Lo stato di forma dei cavalieri del prog metal, nonostante i decenni passati, non sembra niente male. Dei tre membri storici, LaBrie è un po’ imbolsito ma tutto sommato si mantiene bene, mentre il sempre enigmatico Myung appare quasi cristallizzato in un’età indefinibile. La peggiore impressione la fa Petrucci, con i suoi ipertrofici bicipiti alla Popeye e una discutibile barba da profeta che sembra uno zerbino.

La prima parte del concerto è tutta incentrata sul materiale dell’ultimo doppio album THE ASTONISHING (The Dark Eternal Night, The Gift Of Music, A Life Left Behind, Our New World) più varie chicche del passato tra le quali spicca la sempre emozionante The Spirit Carries On dal capolavoro METROPOLIS PART 2: SCENES FROM A MEMORY. Le esecuzioni sono tecnicamente perfette, come da tradizione della band, e il pubblico risponde con un entusiasmo a dire il vero non esattamente incendiario, tanto che più di una volta LaBrie si vede costretto a incitare la folla richiamando l’applauso e facendola alzare dalle poltrone. Probabilmente l’adrenalina del pubblico è in stand by perché quasi tutti sono lì principalmente per la seconda parte dello show. Dopo una breve pausa, infatti, le luci si spengono e dalle casse si ode il suono di una vecchia radiolina che si sintonizza su varie frequenze, diffondendo frammenti di brani anni ’90 fino a che la voce di uno speaker annuncia la messa in onda del disco dei Dream Theater IMAGES AND WORDS. Sull’arpeggio di Pull Me Under inizia la riproposizione integrale di uno dei dischi più significativi del prog anni ’90 e per il pubblico è il delirio. I brani si susseguono uno dopo l’altro con metronomica precisione, almeno per quanto riguarda la parte strumentale: Another Day (purtroppo senza sassofonista), Take The Time (con la voce di LaBrie che arranca sugli acuti più impegnativi), Surrounded, Metropolis pt. 1 (che vede il funambolico Mike Mangini esibirsi in un solo di batteria). Uno dei vertici emozionali si raggiunge con le delicate note di piano che introducono la geniale ballad Wait For Spleep che, come da track list, permette di tirare il fiato tra due monumenti granitici come Under A Glass Moon e Learning To Live. Sono passate quasi tre ore dall’inizio del concerto e il pubblico è saturo di emozioni, quando risuonano le note dell’unico bis della serata: la meravigliosa, lunghissima suite A Change Of Season da lungo tempo assente nelle scalette, chiude come la proverbiale ciliegina sulla torta un concerto straordinario. Unica pecca della serata, a parte un LaBrie in forma buona ma non certo ottimale (non fosse altro che per ragioni anagrafiche),  è stata un’acustica che, seppur lontana dalle nefandezze da palasport, è apparsa piuttosto lontana del potersi definire ottimale.

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