Pubblicato il Giugno 22nd, 2017 | by DDG
0Darcys – Di suoni anomali, guerre e rese
“Credevo davvero che WARRING per noi sarebbe stato IL disco. Pensate che ingenuo. WARRING non ha un singolo vero e proprio: le canzoni sono troppo complesse, i ritornelli non sono abbastanza forti o ben definiti, e i testi sono troppo astratti per le radio rock commerciali. (…) I Darcys non si sono costruiti un grande seguito, e non godono di grossa esposizione in radio. Io e Jason puntiamo tutto sul prossimo disco. La nostra tecnica di scrittura ora è più indirizzata a capire il potenziale sul mercato di ogni canzone. Questa è la dura realtà dell’essere un musicista nel 2014. Sarebbe davvero difficile convincere un’etichetta, un agente o un manager a supportarci nella realizzazione di un altro disco art rock, che magari potrebbe venire nominato per i premi Juno o Polaris, ma sarebbe destinato a vendite mediocri, al massimo. E, tristemente, le vendite sembrano definire il valore di un disco e, a catena, la carriera di una band. La gente vuole fare soldi attraverso di te, e tu devi fare soldi per sopravvivere. Siamo orgogliosi delle recensioni di WARRING, ma il fatto che non sia riuscito a vendere 10.000 copie in Canada mette in discussione il fatto che sia valsa la pena inciderlo.”
Quando a dicembre 2014 i supporter dei Darcys hanno ricevuto la mail intitolata “La fine della guerra”, a pochi mesi dall’uscita dell’album WARRING, avranno supposto che si trattasse dell’annuncio del completamento dell’ambizioso progetto video che doveva affiancare il disco – una clip per ogni canzone, con un approccio “artistico” simile a quello degli americani Copeland di YOU ARE MY SUNSHINE. La missiva conteneva invece un lungo e amaro messaggio di resa, che ufficializzava che con la trilogia pubblicata tra il 2011 e il 2013 cessavano le attività dei Darcys “1.0”, con i due autori della band, Jason Couse e Wes Marskell, a tentare di trasformare in un mestiere redditizio il loro talento di scrittori di canzoni. Ma come si fa a passare dall’art-rock cupo, rumoroso e caldo di The river agli stadi?
“Fondamentalmente, se vuoi fare il tutto esaurito al Madison Square Garden o essere in cartellone al Four Seasons Centre, c’è una serie di standard cui ti devi attenere. OK, ci sono delle eccezioni, ma se Tegan & Sara hanno venduto 165.000 copie di Heartthrob negli USA non è che sia stato solo perché lo volevano loro. E hanno fatto cambiamenti, esplorato i limiti del loro genere e creato un ponte tra lo stile che avevano e quello attuale, creando un prodotto comunque molto riconoscibile.”
E quindi, archiviata l’ultima incisione come quartetto, HYMN FOR A MISSING GIRL, Jason e Wes si dedicano alla avventurosa costruzione di un ponte tra questo, un atmosferico strumentale di 22’ in cinque movimenti ispirato da un cupo romanzo di Cormac McCarthy (peraltro appaiato a un loop di rumore sul lato B del disco), e il mainstream pop alla Taylor Swift di Tegan & Sara, convinti di aver compreso gli algoritmi per il successo: vale però la pena riavvolgere il nastro fino all’inizio della loro trilogia, anomala e affascinante, per quanto poco redditizia.
THE DARCYS (Arts & Crafts, 2011) – Wes (batteria) e Jason (chitarra, tastiere, voce) iniziano in effetti a suonare come duo, a Etobicoke (Ontario): la band si allarga poi a Dave Hurlow (basso), Michael le Riche (chitarra, tastiere) e Kirby Best (voce), e si sposta a Toronto per autoprodurre nel 2007 ENDLESS WATER, un esordio ancora acerbo che esplora molte direzioni, incluse quelle art-rock tra Elbow e Radiohead dei dischi a venire. Best abbandona la band dopo il completamento delle registrazioni realizzate nel 2010 per Arts & Crafts: lo stupendo “secondo esordio” del quartetto viene quindi ritardato di qualche mese, con Jason che reincide tutte le parti vocali.
THE DARCYS è compatto e intenso, con tappeti di synth e suoni compressi a fare da base a larghe e calde melodie vocali: il gruppo è già riconoscibile, sia nei brani aggressivi (come il singolo Don’t bleed me) che in quelli d’atmosfera (l’apertura 100 mile house, Shaking the old bones), ed è visibile l’attitudine a scrivere canzoni new wave malinconiche con uno stile personale (Des animaux, con l’eco inquietante di KID A smussato dal calore del cantato, Edmonton to Purgatory, The mountains make way). L’opera vive nel bilanciamento tra l’inquietudine generata dalla compressione dei suoni e le melodie quasi rassicuranti: la memorabile House built around your voice ne è la migliore espressione, con la strofa resa opprimente dai synth rumorosi, che esaltano l’apertura “a sottrarre” del ritornello liberatorio, con chitarra e cori che fanno pensare a Let down. La scelta di pubblicare l’opera solo in vinile e in streaming gratuito sembra un suicidio commerciale, ma i riscontri sono positivi, e il quartetto può lanciarsi in imprese ancora più ardite.
AJA (INTERPRETED BY THE DARCYS) (Arts & Crafts, 2012) – Dato che uno degli elementi distintivi del gruppo è il suono anomalo, l’idea di applicarlo a qualcosa di preesistente non deve sembrare del tutto peregrina: e perché limitarsi a una cover, se ci si può dedicare al rifacimento integrale di un album? I quattro canadesi scelgono un monumento della musica americana, il capolavoro pop-jazz degli Steely Dan, scritto da Donald Fagen e Walter Becker all’apice della loro ispirazione, e inciso nel 1977 da una sorta di nazionale dei session man statunitensi. AJA è complesso al punto di spaventare qualsiasi epigono, e “cool” presso i genitori dei Darcys (cui questi peraltro dedicheranno l’opera…): riscriverlo per le nuove generazioni parrebbe un’opera disperata e titanica, ma quello che viene fuori dall’esperimento è invece un disco sorprendentemente fresco ed efficace, personale e calligrafico allo stesso tempo, in grado di mostrare nuovi angoli di visione per canzoni scritte oltre 30 anni prima, senza far inorridire chi era affezionato alla fondamentale opera originale. L’ironia di I got the news diventa rilassatezza, i toni sinistri della storia nascosta dentro Peg vengono a galla, Home at last rivela una nostalgia che Fagen aveva dissimulato, e il giro di assolo di Aja diventa altro, restando sé stesso.
“Volevamo creare un’atmosfera che staccasse l’ascoltatore dal disco di Fagen e Becker: molte canzoni iniziano e terminano con sezioni ambientali strumentali che non vogliono richiamare quelle degli Steely Dan. Strutture armoniche e melodie sono reinterpretate per renderle coerenti col nostro ambiente sonoro, piuttosto che con quello del ’77. Non che pensassimo di poter creare qualcosa di migliore dell’originale, volevamo illuminare la bellezza intima di questo disco e ricontestualizzarlo per come poteva essere stato concepito 35 anni fa.” (Wes)
Come il suo predecessore, anche la bella rilettura di AJA viene realizzata esclusivamente come vinile e streaming gratuito, mentre il CD viene stampato solo come mezzo promozionale per le radio.
WARRING (Arts & Crafts, 2013) – I limitati riscontri commerciali non rendono la band più malleabile: la parte conclusiva della trilogia dei canadesi, confezionata anche stavolta con una austera ed elegante copertina in bianco e nero, è WARRING, che volge in canzoni più cupe e adulte quanto mostrato già nei due predecessori. Il singolo The river è spettrale e toccante, con l’invocazione Are you reaching out? del ritornello che si può immaginare idealmente rivolta al pubblico che i Darcys vorrebbero raggiungere; ma tra le canzoni della scaletta, trasformata in gran parte in video (poco adatti alle MTV del mainstream, sfortunatamente), ci sono anche ganci quasi pop (Horses fell, 747s), echi rassicuranti dei maestri riconosciuti (Itchy blood), col falsetto di Jason a rendere struggenti le linee melodiche (Close to me). WARRING è ispirato e maturo, e nella sua cupezza si riflette probabilmente anche la stanchezza che sta arrivando: un tour promozionale accoppiato a un’iniziativa sociale rilevante (i concerti nelle scuole a sostegno dei programmi di educazione musicale canadesi) prelude alla registrazione dell’epilogo strumentale HYMN FOR A MISSING GIRL (500 copie in vinile stampate per il Record Store Day) e alla lettera da cui siamo partiti.
Dopo la bellissima trilogia e la ideale deposizione delle armi, Wes e Jason proseguiranno con CENTERFOLD (2016), “influenzato da Prince, Earth Wind & Fire, Beck e Bruno Mars”, con linee di basso dance e foto promozionali rosa shocking contrapposte alle atmosfere wave e ai grigi artistici della trilogia.
Il nome Darcys però resta legato ad altro, e il pubblico rischia di non riconoscere la svolta: nelle interviste a Wes ricorrono quindi sonore prese di distanza rispetto alla storia (“Il cambiamento più grosso è nel tono del disco, gli elementi da festa sono stati messi un po’ in evidenza: sicuramente non ti verrebbe voglia di mettere uno dei nostri dischi precedenti mentre ti prepari a uscire per la notte – a meno che tu non voglia passare davvero una brutta notte!”) e addirittura alla nazionalità non americana (“È frustrante che i dischi che vengono dal Canada suonino così canadesi… ora utilizziamo riferimenti più universali, per evitare di suonare come l’ennesimo disco canadese, con punti di riferimento e idee canadesi…”), che speriamo risultino almeno funzionali allo scopo (assolutamente comprensibile!) di “fare soldi per sopravvivere”.