Pubblicato il Febbraio 8th, 2021 | by Lorenzo Barbagli
0The Staves – Good Woman (2021)
1. Good Woman
2. Best Friend
3. Careful, Kid
4. Next Year, Next Time
5. Nothing’s Gonna Happen
6. Sparks
7. Paralysed
8. Devotion
9. Failure
10. Satisfied
11. Trying
12. Waiting On Me To Change
Etichetta Nonesuch/CD
Durata 46’22”
Personell
Emily Staveley-Taylor (vocals) ● Matt Ingram, Tom Skinner (drums) ● Lars Horntveth (synth, woodwind, lap steel guitar) ● Jessica Staveley-Taylor (guitar, vocals) ● Luke Reynolds (guitar, bass) ● Marcus Hamblett (horns) ● Camilla Staveley-Taylor (synth, ukulele, vocals) ● Zach Hanson (bass, drums, percussion, synth) ● Ben Lester (synth, pedal steel guitar)
Il terzo album delle The Staves rappresenta per loro un passo avanti dal punto di vista artistico. Con GOOD WOMAN, infatti, la band britannica cerca di emanciparsi dal folk primigenio e più tradizionale da cui era partita nell’esordio DEAD & BORN & GROWN del 2012. Le tre sorelle Staveley-Taylor avevano già iniziato questo processo con il precedente IF I WAS (2015), aiutate anche dall’autorevole produzione di Justin Vernon a.k.a. Bon Iver. Sei anni dopo, saltando la parentesi collaborativa THE WAY IS READ (2017) realizzata insieme all’ensemble orchestrale yMusic, ritroviamo un trio rinvigorito artisticamente, anche se a forgiare le canzoni di GOOD WOMAN sono state esperienze di lontananza, perdita e nascita. Più precisamente la stesura è stata segnata dalla morte della loro madre (che da sempre le aveva incoraggiate e sostenute nel dedicarsi alla musica), dalla fine di una relazione e dalla nascita della figlia di Emily, la maggiore delle tre sorelle. Per questo GOOD WOMAN è quindi, fin dal titolo, un album tutto al femminile, per ciò che riguarda tematiche, sentimenti e prospettive.
La turbolenza degli eventi ha comunque permesso a Camilla, Emily e Jessica di oltrepassare con intraprendenza i canoni del folk classico, incrementando nelle loro canzoni l’utilizzo di synth e fiati per rafforzare ed espandere le trame sonore al fine di renderle più moderne e solide, oltre a scrivere testi più maturi e introspettivi. Questa volta per la produzione le Staves hanno pensato di gestire la maggior parte del lavoro in autonomia, chiamando solo in seguito in supporto John Congleton (St. Vincent, Angel Olsen, Sharon Van Etten), forse per concretizzare un sound più tagliente e orchestrale. Gli interventi dei fiati di Lars Horntveth (Jaga Jazzist), ad esempio, nell’album non vengono utilizzati per solismi folk jazz, ma rimangono sullo sfondo, come nella propulsiva e gioiosa Best Friend, impreziosendone l’insieme. Come succede per il blues, rendere il folk propositivo e interessante non è sempre impresa facile, ma le Staves ci riescono, sia che si tratti di rimanere in ambiti di pop rock adulto alla Fleetwood Mac, come esposto molto bene nella title-track, sia che si tratti di inoltrarsi in battiti industriali e pulsazioni elettriche in Careful, Kid.
L’altro punto di forza delle Staves è, da sempre, l’uso delle voci. La metafora per la quale in passato si sono autodefinite “un mostro a tre teste” calza a pennello se si prendono in considerazione le loro polifonie vocali, così ben in sintonia e ben amalgamate, che sembrano provenire da una singola persona anziché da tre distinte. In questo lavoro riescono a dare il meglio anche in tale ambito: delle armonie così limpide e pure, ascoltate su Next Time, Next Year e Failure, non si sentivano dai tempi di Crosby, Stills & Nash. Ed è ciò che infonde vigore al crescendo di Sparks e Trying, ma anche emotività corale alla malinconica Satisfied. In chiusura, Waiting on Me to Change suggella le intenzioni dell’album in una nota di consapevolezza sul cambiamento, un proposito che le tre sorelle hanno perseguito e conquistato con molta grazia, sofferenza e soprattutto talento.