Pubblicato il Agosto 22nd, 2016 | by Lorenzo Barbagli
0Bent Knee – Say So (2016)
1. Black Tar Water
2. Leak Water
3. Counselor
4. Eve
5. Transition
6. The Things You Love
7. Nakami
8. Commercial
9. Hands Up
10. Good Girl
Etichetta Cuneiform Records/CD
Durata 51’41”
Ben Levin (guitar and vocals) ● Chris Baum (violin) ● Courtney Swain (vocals and keyboards) ● Gavin Wallace-Ailsworth (drums) ● Jessica Kion (bass and vocals) ● Vince Welch (synths and sounds)
Per il giovane sestetto di Boston, dalle forti connotazioni art rock, non poteva esserci album migliore di questo Say So per esordire sotto l’egida dell’etichetta Cuneiform. In sintesi è come se il gruppo fosse maturato, presentando un lavoro nel quale ha adottato alla lettera e fatto tesoro del motto “less is more”, dove anche la splendida voce della Swain appare più misurata del solito. A differenza del precedente Shiny Eyed Babies questa volta la massima concessione all’immediatezza e all’orecchiabilità che potrete ottenere da parte dei Bent Knee sarà quella del singolo Leak Water. Il resto si distanzia da queste atmosfere e si occupa di allargare gli orizzonti avant-garde tramite un saliscendi a tratti schizofrenico. Da una parte si ritorna al rock teatrale di Way Too Long, costruendo un chamber rock intellettuale sulle basi delle canzonette vaudeville con Counselor e su quelle da musical con Hands Up, oppure provando ad allontanarsi con eclettismo e spingersi verso le folleggianti latitudini di Frank Zappa imbastite da Commercial. Dall’altro lato, ciò che colpisce di Say So, è l’impressione di non essere guidato da schemi predefiniti, ma da una continua e precaria ricerca del non prestabilito, in ogni brano gli sconvolgimenti tematici non appaiono mai ben delineati e netti, ma si dipanano più come un flusso di coscienza. La loro varietà interna è l’equivalente di una guida alla cieca e EVE nei suoi quasi dieci minuti popolati da echi vandergraffiani, racchiude e riassume un po’ questa essenza, mettendo in scena vari umori: dalla Swain che canta sopra un tappeto musicale disomogeneo e caotico che si consolida in un’armonia malinconica e sbilenca, fino alla volatilità aleatoria del finale. Da una band che include un’ampia tavolozza timbrica grazie alla presenza di violino, tastiere, chitarre e synth, ci si aspetterebbe un suono denso e virtuosistico: invece i Bent Knee spiazzano con la scelta sorprendente – e per certi aspetti minimale – di fondare le composizioni sull’edificazione atmosferica, sulle stratificazioni sottili e su strutture dalle trasformazioni impercettibili. Così accade nel cupo blues della conclusiva Good Girl e nelle delicate arie romantiche di The Things You Love e Nakami. Dimenticate quindi il passato, i Bent Knee, con tre album all’attivo ognuno diverso dall’altro, sono tra le poche band che oggi hanno il coraggio di misurarsi con il cambiamento e guardare costantemente al futuro.