Pubblicato il Giugno 9th, 2017 | by Lorenzo Barbagli
0Bent Knee – Land Animal (2017)
1. Terror Bird
2. Hole
3. Holy Ghost
4. Insides In
5. These Hands
6. Land Animal
7. Time Deer
8. Belly Side Up
9. The Well
10. Boxes
Etichetta InsideOut Records/CD
Durata 50’48”
Courtney Swain (lead vocals, keyboards) ● Ben Levin (guitar, backing vocals) ● Chris Baum (violin, backing vocals) ● Jessica Kion (bass, backing vocals) ● Gavin Wallace-Ailsworth (drums) ● Vince Welch (synths, sound design, producer, mixer)
In un mondo dove i tempi tra una pubblicazione discografica e l’altra spesso si dilatano a dismisura, è bello ritrovare i Bent Knee a un solo un anno di distanza dall’ultimo SAY SO. Non a caso, proprio durante il tour europeo dell’estate scorsa, il gruppo aveva già presentato a sorpresa una buona parte dei brani contenuti su LAND ANIMAL. Ascoltati dal vivo nella tappa milanese del tour, i nuovi pezzi ad un primo impatto avevano dato l’impressione di essere ancor più avventurosi e velleitari rispetto al materiale di SAY SO e adesso ne possiamo testare la bontà su disco.
LAND ANIMAL sembra attenuare le asperità più avant-garde del suo predecessore, ma scavando a fondo si percepisce come il gruppo stia ancora perfezionando il giusto equilibrio tra prog rock e pop intellettuale, attraverso il costante ricorso a deviazioni dalla normale formula canzone. Ma la peculiarità delle dieci composizioni non è da individuare nella struttura, bensì delle trame degli arrangiamenti. L’esperimento si avvia con Terror Bird, che si preoccupa di creare una tensione di dinamiche tra piano/forte piuttosto che un vera e propria cadenza condivisa da strofa/ritornello. Si prosegue con i riff di chitarra obliqui sovrapposti a temi orientali di Hole e quelli funky di Holy Ghost, le quali creano un bizzarro mix di rock teatrale amplificato dai beat di basso e batteria. In qualche modo il gruppo si piega alla direzione del violino di Baum, il quale spesso viene accompagnato da una sezione di archi nei cui contrappunti si ineriscono anche gli altri strumenti. Se in passato si è giustamente puntato il riflettore sulle doti canore di Courtney Swain, forse mettendo un po’ in ombra gli altri membri della band, in questo caso è bene ricordare l’importanza e la coesione che i Bent Knee riescono a creare a livello strumentale. Ad esempio nello spingere un pezzo come Time Deer in varie direzioni stilistiche, pur rimanendo nei confini di una forma tradizionale preimpostata inizialmente… oppure, di contro, nel lungo fluttuante finale di Boxes, che porta l’album ad un lento spegnimento tra tappeti ambient e colpi della batteria.
La parte centrale dell’album, che comprende il trittico Inside In, These Hands e la title-track, è forse la più emozionante di tutto il lavoro, e ci regala un ampio squarcio di umori e sfumature che vanno in crescendo: si va dalla dimessa calma apparente iniziale alle delicate note della seconda traccia, per sfociare nelle sbilenche e altalenanti pulsazioni intermittenti della terza. C’è una sottile linea che lega questi brani nei quali viene racchiuso l’universo musicale eterogeneo dei Bent Knee, saltando da carezzevoli armonie orchestrali da colonna sonora ai tocchi stravaganti e melodrammatici che convivono in uno stesso pezzo. Ma quello che è veramente rimarchevole, oltre alla stesura, è l’interpretazione fondata sulla sottrazione anziché sull’ostentazione, ma più in generale su impalcature così precarie che basterebbe la minima esitazione da parte di uno dei musicisti per far crollare tutto.