Pubblicato il Maggio 18th, 2017 | by DDG
0Syd Arthur – Il calore del sole di Canterbury, oggi
Canterbury: un “ritorno” che in effetti è improprio definire tale, per la vaghezza delle coordinate attribuite a quella scena inglese di fine ’60, associata a improvvisazione libera quasi jazz, suono acustico bucolico e complessità prog condensata nella forma del pop.
Con un retroterra così indefinito è difficile immaginare una “scomparsa” del genere, che giustifichi l’idea di un “ritorno”. Si può costruire senza problemi un percorso continuo che arrivi da Soft Machine e Gong fino a oggi, passando per esperienze wave eterodosse, evoluzioni del rock in opposition, pop matematico e prog capace di sintesi. Al termine di questa strada possiamo piazzare il pop sognante e dispari dei Syd Arthur, cresciuti proprio nel Kent ascoltando Hatfield & the North, ma anche “Jazz, World, Rock, Psychedelic, Folk, Pop, Classica, Avant-garde e tutto quello che c’è nel mezzo, da Miles a Beefheart ai Can” (Joel Magill), che quindi si ritrovano a mescolare ingredienti che rientrano tranquillamente nella lista di quella ricetta indefinibile che per comodità, all’epoca, venne etichettata col nome della città dove Robert Wyatt e amici studiavano e sperimentavano.
Citando un riferimento canterburyano importante, What’s rattlin (di Richard Sinclair e Pip Pyle, da RSVP, 1994), se il genere avesse previsto “tazze di tè e riff in 15/8 à la Hatfield & the North, brillanti tempi irregolari, complessi accordi ambigui, e settimane di prove per aggiustare un singolo passaggio”, in questa forma avrebbe già stancato gli stessi capiscuola da decenni (“…I’ve had enough of that!”, chiosava la canzone citata). La realtà è che, dato che uscire da un reame così vasto è impossibile, qualunque cosa esca e sia uscita dalle penne dei musicisti citati viene etichettata come Canterbury: e il brillante quartetto dei fratelli Magill, che in quelle coordinate rientra anche geograficamente, ha subito lo stesso destino fin dagli esordi acerbi dei tentativi autoprodotti (l’ormai lontano SYD ARTHUR, 2006 e il più compiuto KINGDOMS OF EXPERIENCE, 2008), dove si riscontrava al più l’inserimento di qualche tempo dispari in strutture di pop psichedelico abbastanza tradizionali.
MOVING WORLD (Dawn Chorus Recording Company, 2011) – La discografia che i Syd Arthur citano nelle interviste inizia da questo EP autoprodotto: ma Liam (voce, chitarra e artwork) e Joel Magill (basso) suonavano col batterista Fred Rother già al college, e il quarto elemento, Raven Bush (violino, mandolino, tastiere e altro, nipote di Kate) aveva completato la formazione poco dopo. Fin dagli inizi, quando si faceva le ossa nella scena dei rave, il gruppo aveva cercato di definire uno stile, ma anche una propria via verso il professionismo: un nome che è un manifesto, col gioco di parole tra il Siddharta di Hesse e Syd Barrett (Raven: “In realtà questa scelta ha creato confusione, dato che in tutte le interviste del primo periodo ci chiedevano chi di noi fosse Syd: alla fine pensavamo di diffondere una storia sul quinto elemento mancante, tipo che era stato rapito dagli alieni”), uno studio di registrazione domestico e una strategia di autoproduzione che a forza di concerti e incisioni potesse condurli a una casa discografica in grado di portare la loro musica pop così poco “mainstream” fino agli appassionati sparsi in tutto il mondo. MOVING WORLD mostra la personalità a venire del quartetto: prevalgono terzinati, flauti ed elementi prog abbastanza scolastici, ma Exit Domino contiene intuizioni che si svilupperanno in canzoni successive (come Garden of Time su SOUND MIRROR), e Morning’s calling ha già l’ispirazione del successivo ON AND ON, con l’alternanza di passaggi rock e strofe dispari, e le melodie pop che segneranno le canzoni della maturità. Manca però ancora la capacità di sintesi: i break da assolo di MOVING WORLD verranno rapidamente ridotti all’essenziale, per ricondurre ogni canzone, almeno nella forma esteriore, ai tre minuti del pop.
ON AND ON (Dawn Chorus Recording Company, 2012) – L’esordio ufficiale arriva a pochi mesi dall’EP, e fa rumore anche al di fuori del Kent: l’apertura di First difference è una dichiarazione di guerra, un riff irregolare di violino che apre su un cantato aggressivo (Where are you going? What is your name?) che si addolcisce nel ritornello che ha il tono della psichedelia moderna dei Tame Impala. La scaletta colpisce, con tante canzoni che in tre minuti (o anche meno) riescono a far convivere melodie che restano in testa (Promise me, o Ode to the summer, col ritornello imprevedibilmente in 4/4,) e cambi di ritmo inattesi, con strofe e ritornelli quasi mai allineati, e che sfuggono ai tempi pari come per una scommessa con i padri putativi che ogni rivista cita nel recensire il disco. Riascoltato oggi, alla luce delle evoluzioni successive, ON AND ON mostra le ingenuità dell’autoproduzione: gli schemi ricorrenti della contrapposizione dei tempi sono a volte innaturali, anche se vengono sostenute da un suono originale (e non solo per il ricorso di Raven a violini e mandolini) e da linee di cantato memorabili. I singoli Dorothy e Edge of the Earth hanno un buon successo a livello indipendente, e si intensificano le esibizioni: dal vivo il gruppo resta fedele al proprio credo, modificando i brani ogni sera (Raven: “Odio vedere concerti che suonano identici ai dischi, le canzoni devono viaggiare altrove…”), ma senza indulgere in interminabili cavalcate psichedeliche. Nel frattempo, i quattro raccolgono fondi per finanziare la partecipazione al festival statunitense South by South West, dove sperano di poter convincere qualche casa discografica a puntare su di loro: la missione ad Austin ha successo, e dopo un certo numero di esibizioni per gli A&R la rinata Harvest li mette sotto contratto.
SOUND MIRROR (Harvest, 2014) – Il crescente successo del gruppo convince anche la leggenda pop UK Paul Weller, che li vuole con sé in tour e che li ospita nel suo studio per sviluppare le nuove canzoni: il confronto con altri musicisti esperti fa sì che le strutture irregolari tipiche del gruppo vengano rese più solide e fluide, e che certi vezzi “canterburyani” emergano solo quando si va a smontare il giocattolo. Prodotto dallo stesso gruppo come ON AND ON, SOUND MIRROR è una raccolta omogenea di canzoni che comprimono nella forma pop influenze diversissime, che vanno effettivamente dal jazz al prog, con una capacità di scrittura che riesce a mascherare un sottofondo di tempi regolarmente dispari, dall’apertura malinconica di Garden of time (dove anche le strofe sono in conflitto ritmico tra loro) ai ganci quasi rock di Autograph e All and Everything, fino alla sognante Chariots, con un flusso continuo tra le canzoni, collegate nel missaggio, che dà all’opera un tono da suite psichedelica. Hometown Blues, la canzone sulla fuga dalla propria città rivista col team di Paul Weller, mostra al meglio la maturazione della composizione: l’apertura di piano incalzante sostiene l’aggressività sommersa del cantato sui toni bassi, e l’esplosione del ritornello “pari” (“Give me a reason now, a reason to stay/I gave all of my live but you left me essays…”) mostra effettivamente che la strada da percorrere deve portarli fuori da Canterbury. Fino a Los Angeles, addirittura.
APRICITY (Harvest, 2016) – Se nel Regno Unito la “nuova psichedelia” ha una risonanza soprattutto a livello indie, negli USA la situazione è diversa: l’australiano Kevin Parker/Tame Impala, associato per stile ai Syd Arthur, collabora con stelle come Lady Gaga e Mark Ronson (è tra le voci e le firme del blockbuster UPTOWN SPECIAL). Lo sforzo necessario per provare a conquistare gli USA comporta un’intensificazione dei concerti, e purtroppo causa l’uscita dal gruppo del batterista Fred Rother, sconfitto da problemi di udito e sostituito dal terzo fratello Magill, Josh. Dopo la tournée USA a supporto degli Yes parte l’incisione di un nuovo disco, a Los Angeles e sotto la guida di Jason Falkner (che meriterebbe un approfondimento a sé: tra i tanti, i lavori con Beck e Paul McCartney lo hanno reso un riferimento per i gruppi pop alternativi che vogliano provare a “crescere”), che mette la sua chitarra non canterburyana su un paio di pezzi, e indirizza suono e ritmiche della band verso una forma di canzone che resti fedele alle radici, rimuovendo qualsiasi vezzo non funzionale al risultato. Il disco trasmette il “calore del sole” evocato dal titolo: i tempi qua e là restano dispari, ma il tiro diventa più rock (Apricity, Into Eternity), e viene definita una modalità pop dove i tempi irregolari siano la firma in sottofondo, e le melodie diventino l’essenza (Sun Rays, No Peace). Quando la guida invisibile di Falkner esce dall’ombra (Plane Crash in Texas), il gruppo si ritrova davvero lontano da Canterbury, ma le canzoni sono una chiara evoluzione di quelle che il quartetto ha sempre composto mescolando gli ingredienti disparati dei propri antenati del Kent. La distanza che separa la stupenda Rebel Lands dalle sorprendenti composizioni degli esordi sta nella naturalezza acquisita, che permette di accoppiare strofe e ritornelli irregolari senza far emergere spigoli, grazie ai colori malinconici del cantato di Liam e al “calore del sole” di un suono sempre in evoluzione, ma ormai maturo e pienamente personale.