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Pubblicato il Agosto 28th, 2016 | by Roberto Paravani

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Glass Hammer – Culture Of Ascent (2007)

Tracklist
1. South Side Of The Sky
2. Sun Song
3. Life By Light
4. Ember Without Name
5. Into Thin Air
6. Rest

Etichetta Arion Records/CD

Durata 69’10”

Personell
Carl Groves (lead and backing vocals) ● Susie Bogdanowicz (lead and backing vocals) ● Fred Schendel (keyboards, organs, piano, Mellotron, loops, programming, acoustic guitar, string arrangement, backing vocals) ● Steve Babb (bass, pipe organ, percussion, Mellotron, piano, harp, loops, programming, Minimoog and backing vocals) ● Matt Mendians (drums) ● David Walliman (electric guitars) ● Rebecca James (violin) ● Susan Whitacre (viola) ● Rachel Beckmann (cello) ● Sarah Snyder (backing vocals) ● Eric Parker (acoustic guitar) ● Robert Streets (backing vocals) ● Haley McGuire (backing vocals) ● Jon Anderson (vocalizations)

Scrivere di un gruppo come i Glass Hammer crea sempre un minimo di apprensione; la band statunitense infatti sguazza con credenziali da star nel piccolo stagno in secca del rock sinfonico, dispone di un piccolo plotone di fan assidui e di una considerevole linea di credito presso la critica mondiale. Si rischia quindi di offendere la suscettibilità di devoti ed innamorati. Come spiegare loro, ad esempio, che l’apertura dell’album con una versione calligrafica di South side of the sky degli Yes non è un’idea splendida poiché fa risaltare la differente qualità nel songwriting tra questa e le restanti cinque tracce? Come descrivere a chi rimane estasiato da suite esuberanti che lo schema scelto è comunque stato mutuato in toto dagli stessi Yes? Come spiegare a chi rimane impressionato dall’enorme varietà di temi ed atmosfere proposte che, l’abuso di cliché e luoghi comuni è un peccato mortale che andrebbe punito con l’allontanamento forzoso da tutti i luoghi di culto musicale? Come si dovrebbe esporre a chi si inebria per tutti gli intrecci vocali, che senza melodie valide e soprattutto senza un cantante degno di questo nome, non si va da nessuna parte? Come difendere la posizione di chi ritiene che chitarre fracassone e rullate di grancasse non siano elementi di qualità e distinzione tecnica ma solo di cattivo gusto? E poi, come spiegare a tutti senza offendere nessuno che acchiappare un artista del calibro di Jon Anderson, fargli cantare tre, massimo quattro vocalizzi, mettere in loop i relativi nastri ed inserirli a destra e manca lungo i settanta minuti dell’opera, non è interazione tra artisti ma una sorta di raggiro per chi comprerà l’album invogliato da quel nome? E’ certo che lette queste scarne considerazioni qualcuno tra i suddetti fan si sentirà ferito nell’intimo e/o le riterrà di parte e prescindibili, come tutto sommato è giusto; rimaniamo però convinti che la strada imboccata dai Glass Hammer sia esattamente quella che il prog di matrice sinfonica dovrebbe evitare per arginare l’aridità creativa che affligge il suo piccolo stagno.

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